Ma la storia, alla lunga, dice Rohac, è destinata a dargli torto (e l'operazione di Trump su Suleimani nasce anche all'interno di questo contesto e in fondo persino il teorico dell'America First e dell'isolazionismo non ha potuto fare a meno di ammettere che non si può proteggere il proprio paese considerando come confini da proteggere solo quelli del proprio paese). E sarebbe bene che le classi dirigenti dei grandi paesi non cadessero nella tentazione di cedere su questo terreno perché cedere su questo terreno significa rendere friabili le fondamenta della nostra società aperta e della nostra libertà. “Il globalismo – dice Rohac –non può essere declinato come se fosse un concetto neutro ed esiste una differenza fondamentale fra le strutture internazionali create da società libere e autonome e quelle istituite da regimi autoritari. E' ora di dire che non vi è alcun sostituto per il ruolo guida che le democrazie occidentali svolgono nel definire norme e standard internazionali e nel fornire soluzioni ai problemi dei singoli paesi”. All'interno delle democrazie occidentali, scrive l'autore, molti leader populisti tendono a considerare come politiche genuinamente vicine al popolo solo quelle schierate in contrapposizione alle così dette élite mondiali, solo quelle che in altre parole hanno come finalità centrale il ribaltamento dello status quo garantito dall'ordine internazionale. Ma in un mondo dominato da uno scontro tra coloro che vedono gli stati-nazione come forme di governo in qualche modo naturali e coloro che invece vedono come un valore l'internazionalizzazione del processo decisionale, i secondi alla lunga saranno destinati a prevalere sui primi per la semplice ragione che alcuni problemi complessi – dal terrorismo ai cambiamenti climatici, dalla proliferazione del nucleare all'inquinamento degli oceani, dalla regolamentazione del libero mercato al commercio globale – per essere affrontati hanno bisogno di un sistema tale che garantisca non l'isolamento ma semplicemente la cooperazione. “Oggi – è il pensiero di Rohac – il globalismo viene spesso descritto come se fosse una sorta di neoliberismo e questa espressione evoca alcune politiche degli anni di Thatcher e Reagan: i tagli alla spesa pubblica, la privatizzazione delle imprese statali, la liberalizzazione del mercato, l'apertura delle economie al commercio e ai flussi di capitali. Ma nell'ambito del neoliberismo non vi è solo un'idea di mercato sfrenato. Vi è anche un'idea diversa: un programma politico che integra il tradizionale laissez-faire con una solida rete di sicurezza sociale”. Per avere più libertà serve più protezione ma per avere più protezione non serve più protezionismo, serve più cooperazione: questo è il neoliberismo e questo è il neoglobalismo. Rohac parla a lungo di Nato, di Onu e di Unione europea – tutte entità sotto scacco assediate dai signori del caos: vedi l'altro prezioso libro su questo tema scritto dal direttore della Stampa Maurizio Molinari, “Assedio all'occidente” (Nave di Teseo) – e nell'elencare i pregi e i difetti di queste realtà invita a non perdersi nei dettagli e a tenere bene impressa nella nostra mente la ciccia: non possiamo mai dimenticare, dice Rohac, che “l'apparizione sulla scena mondiale dei centri del multilateralismo è coincisa con un'espansione senza precedenti della libertà individuale, dell'apertura economica e della prosperità in tutto il mondo”. L'autore si sofferma infine, a lungo, su un tema che oggi sembra scontato ma che invece non lo è: più una potenza mondiale sceglie di allontanarsi dalla sua vocazione internazionale e maggiori saranno le possibilità che quella potenza contribuisca a far riemergere conflitti non solo economici (dove non passano le merci di solito passano gli eserciti) perché “prosperità, apertura e pace non sono elementi invariabili nella vita di un paese, ma sono purtroppo elementi mutabili”. Pur mettendo in guardia il lettore dagli eccessi del parallelismo storico, Rohac sostiene che lo scenario politico determinato da un attacco feroce e continuo al globalismo potrebbe essere “ancora più pericoloso della dinamica che si andò a innescare nel periodo tra le due guerre mondiali”. “Per le giovani generazioni – conclude il saggista – è diventato naturale considerare la prosperità, l'apertura, la libera circolazione delle merci e una relativa pace del mondo come fatti primari invariabili nella nostra vita. Sono trascorsi più di sette decenni dalla fine della Seconda guerra mondiale e la memoria collettiva degli effetti del nazionalismo e del protezionismo è svanita”. La libertà, diceva Calamandrei, è come l'aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare. Forse, prima di farcela togliere da sotto gli occhi, vale la pena sfidare il pensiero unico cialtronista, e complottista, e dire la verità: il globalismo non ha distrutto la capacità delle nazioni di governarsi ma le ha semplicemente migliorate.
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