Q uando ero piccola in classe leggevamo un testo tutti insieme, una riga alla volta. Un calvario (anche se dubito che la me di 7-8 anni lo definisse così), perché bisognava sempre seguire il ritmo degli altri, e alcuni erano lentissimi, leggevano una parola e si fermavano. Io allora mi scocciavo e andavo avanti. E andando avanti scoprivo cosa ci sarebbe stato da leggere dopo. Quindi mi annoiavo ancora di più. Ma, soprattutto, se scoprivo che andando avanti nel testo c'era qualcuno che piangeva, speravo che quella frase non toccasse a me. Quando qualcuno la leggeva, io fissavo il libro, facendo finta di non ascoltare, cercando di ignorare gli sguardi puntati su di me. O magari erano sguardi immaginati e nessuno mi guardava. Non lo saprò mai. Fissavo il libro con talmente tanta intensità che gli occhi mi si incrociavano. Se poi qualcuno veniva definito “piagnone”, sentivo le guance diventare più rosse dei miei capelli e volevo scomparire sotto al banco. Perché piagnona era come venivo chiamata io, e ogni volta che lo sentivo pensavo fosse riferito a me. Era un soprannome che mi generava un odio profondo, che a quell'età non provavo per nient'altro; salvo per mia sorella quando sfoderava il suo sguardo angelico sul suo viso da bambina paffuta dopo avermi morso il braccio. Io da piccola piangevo sempre e odiavo piangere. E più odiavo piangere e più mi veniva da piangere. A volte mi veniva da piangere perché odiavo piangere. O mi veniva da piangere perché piangevo sempre.
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