Leader imprevedibili ma con solidi partiti alle spalle
Il mondo anglosassone non è mai stato, come lo è oggi, così ostaggio di istinti anti sistema, di politiche protezioniste, di partiti votati alla chiusura. Ma allo stesso tempo, pur con mille difficoltà, pur con mille contraddizioni, pur con mille criticità (per fortuna del Regno Unito, Johnson non è Trump, non è un ingegnere del caos, semmai, come scritto sabato da Giuliano Ferrara sul Foglio, del caos è un artista, ed è al servizio del popolo in quanto membro cospicuo dell'establishment), i due paesi dell'occidente maggiormente esposti alla demagogia populista sono quelli che sembrano avere al loro interno una buona quantità di anticorpi utili a governare la febbre populista. In entrambi i casi, sia quando si parla di Regno Unito sia quando si parla di Stati Uniti, gli elettori sanno che all'interno di questi paesi, per quanto possa essere estremista il leader a cui il popolo ha offerto pieni poteri, esistono due meccanismi strutturali che costituiscono una sorta di camera di compensazione delle isterie delle leadership anti sistema. Una prima camera di compensazione è quella costituita da un sistema istituzionale solido che non si limita a declinare i suoi meccanismi di check and balance semplicemente rendendo impossibile al capo di un paese l'esercizio del suo potere (e dando magari pieni poteri alla magistratura). Una seconda camera di compensazione, se vogliamo ancora più interessante, è quella che coincide con la natura di alcuni peculiari soggetti politici che si trovano dietro il modello Trump e il modello Johnson. Forse ne avrete sentito parlare: si chiamano “partiti politici”. Diversi leader populisti, primo fra tutti Matteo Salvini ma non solo lui, hanno tentato di trasformare il tandem di governo Trump-Johnson nel simbolo di una nuova egemonia e di una nuova e inevitabilmente vincente stagione di politici non allineati. Ma tra la storia di Trump (front runner del Partito repubblicano: 165 anni di storia) e quella di Boris Johnson (front runner del Partito conservatore: 185 anni di storia) e quella per esempio di Salvini e di molti follower del nazionalismo europeo c'è una differenza importante che non si può non mettere in rilievo: un conto è avere un paese guidato da un leader populista che in un paese dotato di buoni meccanismi di check and balance si trova a capo di un partito iscritto nel solco della storia dei difensori della democrazia liberale; un altro è avere un paese guidato da un leader populista che in un paese dotato di difettosi meccanismi di check and balance si trova a capo di un partito personale non iscritto nel solco della storia dei difensori della democrazia liberale. C'è insomma qualcosa tutto sommato di rassicurante nel fatto che l'affermazione di due populismi diversi alla Boris Johnson e alla Donald Trump sia avvenuta e stia avvenendo in paesi che hanno la fortuna di avere dietro di loro partiti strutturati capaci di costringere a compromessi veri e a mediazioni toste anche i leader più irregolari del mondo. Il buon funzionamento del sistema sta nei contrappesi, non nelle virtù o nei vizi del leader di turno, e viceversa il cattivo funzionamento di un sistema lo si riscontra laddove esistono populisti alla guida di movimenti sradicati dalla cultura liberale, che si muovono all'interno di strutture istituzionali costruite per non permettere a nessuno di decidere e che vivono in un contesto in cui il potere legislativo viene calpestato dal potere giudiziario. Il Regno Unito e gli Stati Uniti hanno oggi leadership imprevedibili e per certi versi pericolose. Ma il fatto che quelle leadership siano emerse all'interno di grandi partiti che da sempre difendono la società aperta offre agli osservatori qualche ragione in più per pensare che grazie alla presenza dei partiti la realtà alla fine sarà inevitabilmente più forte di ogni forma di populismo.


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