Ci salveranno i campioni europei

Ma non saranno imprese e concentrazioni che una nuova forma di statalismo vorrebbe creare a tavolino, esentandole dalle regole della concorrenza. Il modello Silicon Valley

    A tutto ciò dovrebbe accompagnarsi un ribilanciamento del peso dei singoli stati nelle organizzazioni internazionali a favore dell'Unione.

    Per poter perseguire un'efficace politica estera economica si parla poi di dotare l'Ue di tutto l'armamentario necessario a prendere posizione sulla scena internazionale (non solo dazi doganali, ma anche misure ritorsive contro le sanzioni, l'imposizione fiscale, ecc.) consentendole di avvalersi al contempo della leva tariffaria, di quella valutaria e di quella fiscale. E naturalmente, si vorrebbe che gli investimenti extra-europei fossero assoggettati a controllo unico da parte del Consiglio per avvalersi anche di quest'arma per bloccare le operazioni da paesi considerati concorrenti sistemici.

    Tutto molto bello, a parole, ma possiamo veramente contare di trasformare così l'Ue senza che vi sia una politica estera comune? Le opinioni espresse nelle organizzazioni economiche internazionali, l'adozione di strumenti di coercizione economica, le decisioni di politica commerciale e finanziaria in funzione politica sono imprescindibili dalle grandi scelte di politica estera e dal posizionamento dello stato sullo scenario internazionale. E oggi, non può certo parlarsi di una effettiva politica estera comune. Perfino su tematiche apparentemente innocue, come l'allargamento alla Macedonia del Nord e Albania, si è creata un'acrimoniosa conflittualità interna. Figuriamoci quando si deve decidere il da farsi in questioni più significative come i rapporti con Russia e Cina. Rischiamo di fare un salto in avanti senza rete di protezione, come accadde per l'Unione monetaria: la politica monetaria fu comunitarizzata senza avere conseguito una più stretta convergenza delle politiche economiche. C'è voluta la più grande crisi economica dalla fine della Seconda guerra mondiale per spingere gli stati membri a fare dei passi avanti – e il lavoro è ancora lungi dall'essere completato.

    Anziché perseguire sogni di una improbabile e difficilmente realizzabile grandeur europea, molto nelle corde del presidente francese e dei suoi emuli (o rivali) negli altri stati membri, meglio concentrarci sul here and now, con un più sano pragmatismo. Il vero problema oggi non è tanto il posizionamento dell'Unione nello scacchiere mondiale, quanto la sua paralisi, per effetto di veti incrociati, o la realizzazione di politiche timide e spesso inefficaci, per mediare tra posizioni troppo diverse e spesso confliggenti. Primum crescere deinde philosophare. E la crescita non si ottiene a tavolino. Così come non si costruiscono in laboratorio i campioni europei, che stanno diventando il vero terreno di scontro ideologico tra le forze in campo.

    Le ricette sono da tempo note a tutti, ma purtroppo ancora di difficile attuazione. Il da farsi ce lo ricorda il Jacques Delors Institute in un paper pubblicato in ottobre, dal significativo titolo Beyond Industrial Policy. Why Europe needs a new growth strategy. Le priorità sono completare il mercato interno, rimuovere gli ostacoli (fiscalità, frammentazione della normativa giuslavoristica, difficoltà di accesso ai dati) alla crescita dimensionale delle piccole e medie imprese, creare una sorta di gold standard sul piano regolatorio per le nuove tecnologie (come si è fatto con il Gdpr per il flusso dei dati) e continuare – con chi ci sta – il processo di liberalizzazione e omogeneizzazione degli standard nei settori industrialmente più rilevanti. La realizzazione, ancora lontana da venire, dell'unione dei capitali, ampliando le fonti di finanziamento, potrà dare un importante contributo alla crescita delle imprese e specialmente delle start-up che hanno difficoltà di accesso al canale bancario. E, naturalmente, se si vuole evitare che le imprese tecnologiche fioriscano all'estero, occorre erogare finanziamenti europei alla ricerca e rimuovere gli ostacoli, di varia natura, all'innovazione e alla concorrenza nel nuovo mondo digitale. Se ciascuno stato agisce per sé, continueremo a creare tanti piccoli nani.

    Campioni europei: la rivincita della politica industriale?

    Fin qui si tratta per lo più di nice to have: ambiziosi progetti di lungo termine che distraggono dalle riforme più impellenti per far uscire l'Europa dalle secche nelle quali si trova. C'è però un tema più attuale e pericoloso, soprattutto perché ha ripercussioni immediate. Alcuni stati, infatti, hanno iniziato a rivendicare mano libera per creare dei campioni europei in grado di competere efficacemente con i giganti americani e quelli cinesi. E, per farlo, sono pronti a vendere l'anima al diavolo ovvero a rinnegare i principi fondanti dell'Unione. La tesi di fondo è che la competition policy europea, avendo come obiettivo la tutela del consumatore e la promozione della concorrenza, non sarebbe in grado di rispondere ad altre finalità di interesse più generale, come appunto quella di favorire la nascita di grandi imprese europee in grado di conquistare i mercati mondiali. Ma siamo proprio sicuri che i campioni europei si possano creare solo in vitro, esentandoli cioè dalle regole della concorrenza?

    L'episodio scatenante è stato il merger mancato tra Siemens e Alstom. La commissaria Vestager, infatti, per dare il via libera alla concentrazione aveva richiesto delle misure compensative (la cessione di alcuni asset) che le due società interessate non hanno, però, voluto accettare. Scottati dalla decisione, i governi francese e tedesco hanno accusato la Commissione di essersi basata esclusivamente su considerazioni di natura concorrenziale, trascurando altri aspetti che, a loro avviso (ma non secondo il Regolamento sulle concentrazioni), avrebbero pari dignità o addirittura superiore. E nel dicembre 2018, diciannove stati (tra cui Italia, Francia e Germania) hanno scritto alla Commissione chiedendo una politica industriale più “assertiva”. Il che – per dirla in termini più chiari – significava modificare la politica della concorrenza per dare maggior peso a considerazioni di politica industriale e del contesto competitivo internazionale. Cioè, in sintesi, subordinare la valutazione tecnico-economica della Commissione alle ambizioni politico-industriali degli stati membri. Nei giorni scorsi, poi, i ceo di 21 tra le principali imprese di telecomunicazioni europee hanno scritto una lettera chiedendo “una politica industriale per la leadership digitale”, volta cioè a difendere un settore sempre più in difficoltà nella competizione globale con i grandi player americani. Infine, anche il nostro presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, intervenendo lunedì scorso al Rome Investment Forum, ha invocato una riforma della competition policy europea che oggi è, a suo avviso, suscettibile di “frenare i nostri campioni europei”.

    La Francia (ma non solo) ha sempre sopportato con una certa insofferenza il ruolo così importante della Commissione. Insofferenza che è andata crescendo man mano che il lavoro di integrazione dei mercati si è fatto più capillare, frustrando la maggior parte dei tentativi di eludere le regole. Tant'è che Nicolas Sarkozy, tra le condizioni per approvare il Trattato di Lisbona, ottenne di eliminare il riferimento alla politica di concorrenza tra gli obiettivi dell'Unione. Una concessione per lo più simbolica, ma rivelatrice. Oggigiorno, con l'avanzata intellettuale del nazionalismo economico, la situazione è divenuta esplosiva.

    Non c'è alcuna evidenza che il ritorno dello stato innovatore (o imprenditore) avrebbe effetti discernibili e positivi sulla crescita e il benessere. Anzi, è vero il contrario. Non è che manchino esempi di investimenti pubblici, imprese statali o altre forme di eterodirezione dell'economia nei quali l'esito sia stato positivo: è che si tratta delle eccezioni a una regola che, in generale, lascia poco scampo. Alla base di tutto c'è un problema di informazione. Il processo competitivo è simile alla selezione darwiniana, e tende a premiare quelle imprese che – in un dato contesto di tempo e di luogo – sanno meglio adattarsi alle condizioni ambientali. Le scelte top down raramente riescono a incorporare, con altrettanta efficacia e rapidità, i cambiamenti nelle preferenze dei consumatori, nella tecnologia, nei processi produttivi e nelle condizioni esogene del mercato.

    Non è un caso se i tentativi di replicare a tavolino i casi di successo sono generalmente risultati fallimentari. L'esperimento più clamoroso, in Europa, è quello di Sophia Antipolis, il parco tecnologico situato tra Nizza e Cannes che, nelle intenzioni del suo fondatore (lo scienziato e senatore Pierre Laffitte) e dei vari sponsor governativi, avrebbe dovuto rivaleggiare con la Silicon Valley. Il Corriere della Sera ne celebrava così il cinquantennale: “Sophia Antipolis, la Silicon Valley francese compie 50 anni. Ma il sogno del suo fondatore dev'essere ancora realizzato”.