Perché la piazza democratica d'Algeria è contro le elezioni del “pouvoir”

Rolla Scolari

    Milano. Da oltre nove mesi gli algerini scendono in piazza a milioni, in tutte le città del paese, per protestare contro un regime antico. Dal 22 febbraio a oggi, sotto la pressione della piazza, si è dimesso l'anziano e malato presidente (era aprile). Due ex premier e alcuni alti funzionari del governo sono stati processati e incarcerati per reati legati alla corruzione. E oggi il paese vota in un'elezioni in cui, per la prima volta in vent'anni, tra i candidati non c'è l'ex rais Abdelaziz Bouteflika. Nella storia delle rivoluzioni questo sembrerebbe un cammino di transizione invidiabile. Eppure, fino alle ultime ore prima dell'apertura delle urne in Algeria, la piazza si è riempita per dire no al voto, no a un'elezione che è giudicata dai manifestanti l'esercizio di un potere che, benché privato della sua leadership, resta forte nella capillarità della sua struttura. “La democrazia contro l'elezione”, ha titolato sullo scrutinio algerino una tv francese.

    Il paradosso è da una parte profondo, dall'altra segno di una lezione interiorizzata dalle piazze di questa nuova stagione rivoluzionaria nel mondo arabo e islamico. Se nel 2011, nell'inesperienza delle prime rivolte, le opposizioni si sono accontentate del potente simbolo del crollo di un tiranno e sono corse veloci ed entusiaste al voto, essenza e rito consacrato delle democrazie occidentali, la piazza algerina sembra essere conscia degli errori commessi da altri. “Il voto è organizzato da un regime che la rivoluzione rifiuta, attraverso meccanismi che la rivoluzione rifiuta – spiega Adlène Meddi, giornalista e scrittore algerino – I manifestanti hanno sempre chiesto l'uscita di scena di Bouteflika ma anche quella del suo regime. Se si toglie soltanto Bouteflika ma non il sistema, non si risolve il problema”. In arabo la stessa parola “nizam” traduce sia regime sia sistema: l'entità che la piazza vorrebbe vedere uscire completamente di scena. A differenza degli altri paesi arabi delle rivolte del 2011, gli algerini usano meno questo termine e più l'espressione francese “le pouvoir” per riferirsi al clan oligarchico-familiare-militare che per decenni ha retto le sorti della nazione. Meddi spiega che il movimento di dissenso ha per mesi tentato di aprire un dialogo con il “pouvoir”, senza successo. Il potere vero, dice, è quello dell'esercito, quello del generale Ahmed Gaid Salah, “che si nasconde dietro ai politici civili” e che avrebbe “scelto” i cinque candidati al voto. Si tratta di politici del passato, che hanno tutti rivestito ruoli nell'ex regime, con un'età media tra i 60 e 70 anni in un paese in cui la maggior parte della popolazione ha meno di 30 anni.

    “No al voto”, “Non voto contro il mio paese”, è scritto sui cartelli nelle manifestazioni di piazza, in francese e in arabo, a testimoniare il complesso passato coloniale del paese. L'Algeria di piazza rifiuta lo scrutinio: lo dimostra con i sacchetti neri della pattumiera sui manifesti elettorali, le uova e i pomodori lanciati contro le sedi dei candidati. Alcuni eventi in campagna elettorale hanno registrato il vuoto, altri lo scontento della folla locale. “L'astensionismo sarà alto e il presidente eletto mancherà di legittimità”, prevede Omar Belhouchet, ex direttore e fondatore del quotidiano al Watan. Secondo lui, il giorno dopo il voto le piazze torneranno a riempirsi, anche se l'opposizione si sposterà su un terreno sempre più politico. Con il voto, “il potere sistemerà un problema tecnico, avrà un presidente per parlare alla nazione e all'estero, ma non quello politico. Rimarremo nel sistema Bouteflika senza Bouteflika – è la previsione di Meddi – Perché l'esercito pensa che un cambiamento debba essere controllato dai militari e non dalla società civile e politica. Il paradigma dei militari però non può essere tradotto in un quadro politico. I militari sanno che cosa sono una caserma e un kalashnikov, ma non sanno fare la democrazia. Non è cosa loro”.

    Rolla Scolari