
Restare Jovanotti per sempre
“So di essere stato unico… Sono diventato famoso in un flash”. Il successo, la gente che gli va incontro, il narcisismo indispensabile. Lorenzo è diventato grande senza mimetizzarsi
L'attacco del disco, con quella versione di “Notte di Luna Calante” che arriva da un sogno di primavera, dà subito la misura della scelta. “Alla fine le ho cantate come fossero canzoni mie, pezzi che ho incontrato sulla mia strada. All'inizio pensavo di metterci delle atmosfere spaziali un po' vintage, dell'elettronica retrò, che desse quel gusto “fantascienza d'una volta”. Ma Rick è uno che non vuole artifici: a lui interessano voce e melodie. E' un anti-decorativo per eccellenza”. Infatti “Lorenzo sulla Luna” è diventato un disco essenziale, sussurrato, ricamato delicatamente e con qualche saltello beat, quando arriva il momento di “camminare dentro a un metrò”, in “Luna” di Gianni Togni. “Ci siamo rifatti ai Monkees. “Luna” ha una melodia semplice, ripetitiva. E i Monkees non sono mai stati presi sul serio, erano solo un gruppo da televisione. Ma se adesso li riascolti, li capisci. Come Cochi e Renato da noi: “La Canzone intelligente” nessuno l'ha presa sul serio, ma è un pezzo della madonna”. Togni-Monkees-Cochi e Renato: la trinità di Malibu, in una giornata in cui avrà tirato il solito vento senza requie del Pacifico. “Su ogni pezzo Rick ha avuto un approccio diverso. Quando è arrivato il momento di “Una notte in Italia” di Fossati, ha reagito in un modo incredibile… aspetta, ti faccio vedere!”. Di botto Lorenzo s'alza dal trespolo dello studio casalingo e si fionda nella stanza accanto, per tornare un secondo dopo sorridendo e protendendo un grande blocco d'appunti, su cui, tra macchie di caffè, c'è scarabocchiato solo: “Joe Strummer”. “Ecco questo me l'ha fatto vedere di là dal vetro mentre stavo registrando! Voleva dirmi: Falla alla Joe Strummer! Come la farebbe lui. Quando sono uscito dalla sala ho preso il blocco, e me lo sono portato a casa!”.
“Luna di città d'agosto” è il pezzo scritto da Jovanotti per questo disco, una ballata intensa e cinematografica, che contiene l'unico rap del disco. “Prima non avevo mai fatto dischi in un modo così istintivo”, continua Lorenzo. “Ora Rick me lo sta insegnando. Lavora come negli anni Sessanta, in fretta, senza sovrapposizioni. Del resto Celentano una volta m'ha raccontato che ‘Azzurro' l'hanno registrata solo due volte. Una l'hanno tenuta ed è finita sul disco, l'altra l'hanno buttata, nel senso che ci hanno proprio inciso sopra. Nella musica c'è qualcosa che il microfono fotografa sempre. Non puoi mentire. Se per sei mesi stai a farti le pippe in studio, quella pesantezza rimane dentro un disco, la percepisci”.
Il sodalizio Jovanotti-Rubin ha talmente stretto le fila che adesso Rick si sta costruendo uno studio in Italia, vicino Siena, a due passi dalla casa di Jovanotti: “Il posto l'abbiamo trovato insieme”. Il legame si prolungherà nel tempo e condurrà Lorenzo chissà in che direzione: “So che siamo solo all'inizio. Possiamo fare cose pazzesche. Lui è un avventuriero musicale e io pure. Ultimamente la principale sensazione che provo nei confronti della musica è quella di sentirmi ancora all'inizio. Dimmi cosa c'è di più bello”. Con Rubin stanno già parlando del prossimo progetto insieme: “Mi sta capendo. All'inizio ci siamo annusati. Lui se non sente il feeling, lascia perdere. Per esempio non ha capito i Nirvana, perché il rock a quei tempi per Rick erano gli Slayer. Ma quando entra in azione ha un'etica del lavoro pazzesca e in questo io gli somiglio. Bisogna sempre avere progetti che si vanno formando nella tua testa. E bisogna tenere i canali di comunicazione aperti. Con Rubin ci possiamo dire tutto: non si offende mai nessuno. Una volta m'ha confessato che un personaggio come me in America non esiste. E quando mi è venuto a trovare in Italia è rimasto sconvolto dal modo in cui la gente si relaziona con me, anche soltanto quando entro al bar. M'ha confessato di non aver mai visto niente del genere, nemmeno con Johnny Cash. Quel certo modo con cui le persone mi vengono incontro, come se mi conoscessero da sempre”.
Già, perché chi è diventato intanto Jovanotti, dopo una carriera lunga trent'anni, proveniente da quegli anni Ottanta ormai impalliditi e a fianco di un paese che cambiava, ma che non s'è mai stancato di lui? “Io so di essere stato unico. Prima di me, da noi si facevano cose diverse. Sapevo dove volevo arrivare, ma non c'erano altri che condividessero quel che intuivo. Quando ho cominciato, stavo sulle balle anche ai rapper, non mi ammettevano nella comunità, non accettavano che arrivassi da un percorso che contemplava la console dei djs, la tv, e addirittura da Milano, io che ero cresciuto a Roma. Non ho mai fatto parte di una scena. Mai cercata la foto di gruppo, quella che ti dà sicurezza. Ho cominciato da disc jockey e la console è un mondo solitario. Da Goody Music, il negozio per djs di Claudio Donato. Ma la novità fu di pensare che la console potesse essere il mio palcoscenico”. Da lì in poi Jovanotti rimane un caso a parte, inclusi i sentimenti forti che avrebbe continuato a provocare, sì o no, amore o antipatia. La memoria di quegli inizi non abbandona mai Lorenzo: “A Roma mettevo i dischi al Veleno, che poi si chiamerà Diva Futura. Era un vecchio night, trasformato in discoteca. Aveva il clima decadente di Via Veneto, che era dietro l'angolo, un look alla antico romano, i divani di leopardo, la pista piccola. Mettevo tanto rap: Afrika Bambaata, Beastie Boys, Grandmaster Flash, fino all'86, quando sono partito per Milano. Sul dancefloor imponevo le cose, camuffandole tra i pezzi di Madonna. Il flusso non si fermava mai e poi ci rappavo sopra, che era una novità, perché a Roma i djs erano tutti timidi, tranne Faber Cucchetti, l'unico estroverso. Sono stato il primo a Roma ad aprire il microfono. Alle 3, quando il Veleno chiudeva, andavo da Corrado Rizza, il dj dell'Hysteria che restava aperto fino alle 5, e rappavo mentre lui metteva i dischi. Esistono delle cassette di quelle serate. L'Hysteria era diverso dal Veleno: aveva la console in alto e chi ballava non vedeva il dj. Non mi piaceva, soffrivo questo distanza, m'impediva di esibirmi: a me piaceva vestirmi strano, mettere i cappellini, essere protagonista, cose che andavano oltre il djing romano. Ma Roma è sempre stata una città conservatrice, mentre allora Milano era una città new wave, protesa verso i linguaggi fashion. A Milano l'hip hop ce l'ho portato io, prima non girava: quando sono arrivato da Cecchetto a Radio DJ, mettevano solo nuovo rock. Sono diventato famoso in un flash. Dopo la radio, la notte andavo all'Hollywood o al Plastic, a mettere i dischi. Ho fatto subito amicizia coi Righeira e con Keith Haring, che stavano eternamente là. Una volta è arrivato Giorgio Gori, all'epoca incaricato dei palinsesti a Mediaset. Quel giorno Berlusconi gli aveva messo in mano Canale 5 ed era sconvolto. Diceva ‘ti rendi conto, m'hanno affidato tutta sta cosa'. Era ancora un ragazzino e s'è ubriacato”. Adesso fa il sindaco a Bergamo. “Dicono che sia molto bravo”.
Poi c'è stata la lunga corsa nel successo, senza requie, con quella bramosia elettrica che non l'ha mai abbandonato. Finché arriva il giorno che ti fermi e non sei più così sicuro di te. Adesso, per fortuna, la crisi della mezza età è alle spalle e anzi Lorenzo sembra non avere più un'età definibile. E ha ricominciato a respirare la sua sana ansia da prestazione. Fin quando non è partito il Jova Beach Tour, un viaggio fisico e mentale sufficiente a saziare il grande Gatsby: “Alla fine ero felicissimo, perché una cosa così non l'avevo mai vista. Nemmeno fatta da un altro. Non si potrà rifare, ma si può rifare meglio, con un'altra idea. Ci si può lavorare, non nel 2020, ma non adesso perché voglio scrivere nuove canzoni, magari l'anno dopo. Per la prima volta da quando faccio questo mestiere, mi sono sentito totalmente nel mio elemento. Come se tutti gli anni di lavoro m'avessero portato fin qui, a questo formato, e io stessi finalmente facendo la cosa per la quale sono nato. Non ero in prestito in un mondo: era il mio mondo, quello che ho inventato io. A ogni tappa del JBP stavo sempre lì dalle tre del pomeriggio… mettevo dischi, facevo gli annunci, facevo sentire musica africana, hip hop, indie, Toto Cotugno, Gianni Morandi, Fatoumara Diawara… La musica, il mio elemento, la mia vita. Io tutto il giorno non faccio altro che ascoltare musica. Ma qui c'era in più il fattore umano, lo spazio, le dimensioni, l'utilizzare dei posti modificandone l'uso, attribuendo loro un nuovo genius loci. M'hanno raccontato che ora a Silvi Marina la gente va a farsi le foto dov'è passato il JBP, come a Woodstock. Perché gli smartphone hanno cambiato il mondo e noi uomini adesso siamo antichi.


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