CONTRO I CIALTRONI DELL'ACCIAIO
Mi occupo di siderurgia dal 2008, l'anno precedente è stato un anno importante per il settore: fu l'anno record per la domanda mondiale d'acciaio. La domanda di questo metallo è un elemento cruciale perché è un buon indicatore della salute dell'economia in quanto riflette la domanda dei settori consumatori, automotive, elettrodomestico, costruzioni, cantieristica navale, e molto altro. L'acciaio scorre nelle vene dell'economia, fermarlo significa provocare l'infarto dell'organismo. Nel nostro paese la siderurgia ha un valore essenziale per le nostre caratteristiche strutturali. Siamo un paese piccolo, povero di materie prime. Ciò rappresenta una “condanna” ad avere un manifatturiero con grande capacità di export per tenere la bilancia commerciale in positivo e poter pagare le importazioni di ciò di cui siamo sprovvisti. Siamo un paese che morfologicamente deve puntare al mondo aperto. La siderurgia è il settore primario del manifatturiero e perdere, dopo l'alluminio, anche la produzione di acciaio significa perdere sovranità industriale. Per questo la siderurgia italiana ha una storia importante ma che riflette tutte le contraddizioni del nostro paese.
E' la storia che corre parallela al Gruppo Ilva, il cui nome deriva dal nome latino dell'Isola d'Elba. E' la tipica storia italiana in cui si parte da una grande intuizione ma che presto, per l'incapacità di sommare le energie e conciliare le esigenze, si trasformerà in un disastro.
Il 9 luglio 1960 fu posata la prima pietra del più grande centro siderurgico italiano ed europeo. A pochi passi dalle estreme propaggini della città di Taranto, vengono estirpati decine di migliaia di alberi d'ulivo. Molti anni dopo, per lo stabilimento a pochi chilometri di distanza di Leonardo a Grottaglie, che costruisce le fusoliere del Boeing 787, gli ulivi vennero espiantati e ripiantati vicino alla città. Il primo altoforno entrò in funzione il 21 ottobre 1964, il secondo il 29 gennaio 1965. Dopo una fase di rodaggio, il 10 aprile 1965 il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat inaugurò ufficialmente il quarto centro siderurgico del paese (quarto in ordine di tempo, dopo quelli di Cornigliano, Piombino e Bagnoli), il più grande di tutti.
Quando la politica pensava al futuro
Nel 1948 il governo italiano aveva approvato il Piano Sinigaglia, dal nome dall'ingegnere e imprenditore Oscar, presidente delle acciaierie Ilva all'inizio degli anni Trenta, perseguitato dal regime fascista in quanto ebreo, poi presidente di Finsider, il ramo dell'Iri che comprendeva le aziende siderurgiche in mano pubblica, tra cui l'Ilva, la Terni, la Dalmine e la Società Italiana Acciaierie di Cornigliano (Siac). Il Piano prevedeva un forte aumento della capacità produttiva della siderurgia nazionale, attraverso la ricostruzione dello stabilimento di Genova-Cornigliano e l'integrazione verticale delle lavorazioni negli stabilimenti di Piombino e Bagnoli. Persone come Sinigaglia erano capaci di non relegare le politiche al “ricatto di breve termine” della politica attuale, o al “tweet” della recentissima. In un articolo del 1948 intitolato “The future of Italian iron and steel industry”, Sinigaglia aveva spiegato la sua strategia: l'Italia era un paese sovrappopolato le cui risorse non consentivano ai suoi abitanti di raggiungere standard di vita paragonabili a quelli dei paesi europei più ricchi. L'emigrazione non poteva rappresentare la soluzione al problema ed era, quindi, necessario analizzare tutte le risorse disponibili. L'agricoltura, secondo Sinigaglia, non poteva però migliorare la condizione precaria del paese. La speranza poteva essere riposta nell'industria, in particolare nella siderurgia, che avrebbe assicurato almeno la produzione di acciaio a prezzi moderati, necessaria a fornire semilavorati agli altri settori industriali.
La scelta di Taranto dopo Bagnoli
Negli anni 60, si decise di costruire un altro stabilimento siderurgico nel sud, dopo quello di Bagnoli nel 1910, la scelta ricadde su Taranto per diverse considerazioni di natura tecnica, logistica – fra le altre le caratteristiche del Golfo tarantino che consentivano di costruire un porto capace di accogliere navi per il trasporto delle materie prime e la spedizione dei prodotti – e, naturalmente, politica. Una città militar-industriale di 170 mila abitanti sorta intorno alla base della Marina e all'Arsenale attraversata da una violenta crisi occupazionale. “Taranto non deve morire”, slogan usato recentemente, nasce, in realtà in quegli anni pre Ilva. “Un'impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di quasi 2.000 miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l'inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sotto vento”, scriveva Antonio Cederna nel 1971 sul Corriere della Sera. Tuttavia, alla metà degli anni 70 si procedette al raddoppio del centro siderurgico che portò gli assunti diretti al numero esorbitante di oltre ventimila dipendenti, e quelli dell'indotto a oltre quindicimila. Il raddoppio estese la superficie della fabbrica. Le basi del vero gigantismo industriale che rendono complicatissima (ma non impossibile) qualsiasi via d'uscita del “caso-Taranto” sorgono allora.


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