
Un Manifesto per salvare il “vero” liberalismo L'economista Deirdre McCloskey entra nel dibattito sul declino liberale con un libro ottimista che relega il populismo a nota a margine della storia
Deirdre McCloskey è una economista e storica americana che ha prodotto importanti contributi alla riflessione sulla condizione contemporanea, in tempi recenti con un'ambiziosa trilogia sull'“età borghese” – dalla prima rivoluzione industriale ai giorni nostri – che infiniti benefici ha addotto alle società occidentali e al mondo globalizzato. L'architrave concettuale di quelle opere è che le idee, il capitale umano e sociale espresse nell'ideale borghese sono stati i veri motori di una prosperità senza precedenti, che non può essere dunque ridotta al semplice accumulo e sfruttamento di capitali economici. McCloskey non è solo un araldo accademico della visione liberale e post-moderna, ma in un certo senso ne è un'incarnazione, una testimonianza, avendo deciso all'età di 53 anni di diventare donna dopo un lungo passato in cui era nota come Donald, esperienza raccontata nel libro Crossing: A Memoir, pubblicato nel 1999. Fiera critica di ogni forma di dirigismo e avvocato dello stato minimo, spesso viene associata al mondo conservatore oppure descritta come “libertaria”, aggettivo che non ama ma dal quale non riesce a liberarsi del tutto. Una volta si è definita così: “Una donna letteraria, quantitativa, postmoderna, liberista, progressista, episcopaliana, midwestern di Boston che un tempo è stata un uomo. Non ‘conservatrice'! Sono una libertaria cristiana”. Più di recente si è detta soltanto “liberale”, oppure “vera liberale, “liberale humane” – l'aggettivo è da intendersi nel senso di compassionevole – o “liberale 2.0”, in opposizione a una vecchia forma di liberalismo che giudica condivisibile ma incompleta.
Un paio di settimane fa l'autrice ha aggiunto un nuovo tassello alla sua produzione, pubblicando un libro dal titolo Why Liberalism Works: How True Liberal Values Produce a Freer, More Equal, Prosperous World for All (Yale University Press) il cui valore fondamentale non va ricercato già nell'originalità delle tesi esposte – è una raccolta ordinata e sistematica di cose che l'autrice dice da almeno quindici anni – ma nel dibattito all'interno del quale si colloca. Non sarà sfuggito a nessuno che di questi tempi il liberalismo è sotto accusa, e non è appena un fatto legato alla crescita di offerte politiche di marca illiberale, raccolte sotto il termine-ombrello “populismo”, quanto alla riflessione sulla tenuta di un sistema di pensiero che secondo diversi critici sta mostrando falle strutturali. Un fatto più profondo dei transeunti successi elettorali dei Trump, degli Orbán, dei Bolsonaro, dei Duterte e compagnia. I critici odierni del liberalismo si possono dividere grossolanamente in due categorie, i “reazionari” che si concentrano sulla dimensione antropologica e sociale – a loro dire autocontraddittoria – su cui poggia l'edificio liberale, e i “radicali” che denunciano gli effetti nefasti che il sistema ha prodotto in termini di disuguaglianze (non solo economiche) e di concentrazione della ricchezza nelle mani della finanza e delle grandi corporation, a discapito degli ultimi. Gli argomenti di questi gruppi si sovrappongono in alcuni punti della pars destruens, per poi divergere quando si tratta di immaginare come dovrebbe essere il futuro post liberale. Dovendo citare due autori particolarmente influenti nelle due tribù vengono alla mente Patrick Deneen, politologo americano dell'università di Notre Dame, e l'economista francese Thomas Piketty. Poi ci sono – e anche qui la distinzione è grossolana – diversi difensori del liberalismo la cui posizione potrebbe essere sintetizzata così: il liberalismo è buono e giusto, nei principi, ma qualcosa nella sua applicazione storica è andato storto, quindi occorre un qualche processo di rifondazione per restaurarne l'ideale originario.
In questo schema ipersemplificato, McCloskey confuta le critiche dei primi due gruppi – li chiama i “judgers” e i “nudgers”, quelli che castigano l'individuo o lo vogliono orientare con forme morbide di paternalismo statalista – ma allo stesso tempo resiste anche all'assimilazione nella squadra dei liberali in vena di parziale autocritica, e prende la strada della difesa dell'impianto liberale così com'era stato concepito, principalmente nel XVIII secolo, e come poi è stato applicato, e poco importa delle imperfezioni e dei tradimenti sperimentati lungo il percorso. Questo sforzo di difendere il mere liberalism, per parafrasare C.S. Lewis, di produrre cioè una esaltazione dell'ideale liberale “in purezza”, per dir così, è ciò che rende questo libro un contributo fondamentale per il dibattito odierno. Non sostiene che il liberalismo funziona malgrado i suoi limiti interni, ma che ha trionfato, cambiando il mondo in meglio, nonostante la massiccia campagna – iniziata, a suo dire, negli anni Ottanta dell'Ottocento – che ha visto la perniciosa estensione del ruolo dello stato nel regolare la vita delle persone. Le concessioni allo statalismo, talvolta portate nel nome di un “falso liberalismo”, sono all'origine delle sofferenze odierne, ma per McCloskey non è nulla di irreversibile, e perciò il suo è un libro “ottimista”, non annuncia la fine dei tempi né lamenta l'invasione dei barbari. Coerentemente con questa visione, l'economista giudica il momento populista come un accidente storico, una breve fase che passerà, non un sintomo di qualcosa di più profondo, e sostiene che Francis Fukuyama aveva ragione indicando l'ideale liberale come telos della storia. Probabilmente crede nella tesi di Fukuyama più di Fukuyama stesso, che nel tempo ha introdotto correttivi ambivalenti.
Per spiegare che il liberalismo funziona, McCloskey, che è innanzitutto un'economista quantitativa, nota che dalla rivoluzione industriale la condizione dei più poveri in occidente è migliorata del tremila per cento, e dunque i rivoluzionari o reazionari riformatori del capitalismo cattivo dovrebbero sapere che nessuna invenzione umana ha fatto tanto per combattere la povertà quanto l'era del Grande Arricchimento, epoca segnata dai diritti individuali e dal libero mercato. Su questa premessa, l'economista americana costruisce un manifesto per un “liberalismo 2.0”, che è “preTrump e adulto nelle politiche commerciali e nel dibattito civile; di tolleranza post obamiana nelle politiche sociali; postLyndon Johnson sui diritti civili; pre McKinley nella politica estera e preLincoln, o addirittura preJackson, nell'intervento dello stato nell'economia”. In sostanza, questo liberalismo dal volto umano “è principalmente contro la policy“, cioè contro la regolamentazione centralista, che questa avvenga in forme apertamente autoritarie oppure attraverso l'estensione delle burocrazie e l'orientamento dei comportamenti. Si potrebbe dire che si tratta di una posizione “libertaria”, ma è proprio questo il punto del libro: McCloskey sostiene che è liberalismo, anzi il Vero Liberalismo.


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