Il tempo algoritmico ci mangia

Paola Peduzzi

    Facebook ha detto in un comunicato ufficiale che la Internet Research Agency (Ira), la fabbrica-dei-troll-del-cuoco-di-Putin che secondo le autorità americane ha interferito nella campagna elettorale del 2016, sta costruendo un network di account su Instagram (che è di proprietà di Facebook) negli stati americani in bilico, gli “swing states”. Secondo Graphika, un'altra società di intelligence sui social media arruolata da Facebook per analizzare questi account, il network aveva come obiettivo la candidatura alle presidenziali di Joe Biden, l'ex vicepresidente democratico che potrebbe sfidare Trump nel 2020. Cinquanta account su Instagram e uno su Facebook hanno pubblicato 75 mila post ai loro 250 mila follower su molte questioni della politica e della società americana. Alcuni erano pro Trump altri no, alcuni sembravano attivisti neri, altri a favore dei diritti delle donne o degli omosessuali, altri ambientalisti. La tattica è sempre la stessa, come ha sintetizzato il direttore di Graphika, Ben Nimmo, parlando alla Cnn: “Non si tratta di russi che si rivolgono agli americani con contenuti russi. Sono russi che si rivolgono agli americani con contenuti americani”. Buona parte di questi contenuti era ripresa da media americani, e il riciclo di temi già visti è utile per sembrare americani – anche se poi gli errori nella formulazione dei post rivelavano che di certo non si trattava di utenti madrelingua. Annunciando le nuove attività dell'Ira, Facebook ha anche detto di aver smantellato una piccola rete di account la cui origine è in Iran. Oggi, ha detto Graphika, è più difficile far finta di essere un repubblicano del Tennessee e avere un numero di telefono russo rispetto a quanto accadeva nel 2016, e questa unica nota positiva è stata la premessa di Facebook per dire che è in atto un controllo molto più capillare e severo rispetto al passato, e che questa volta non sarà possibile insidiare il processo elettorale americano – la chiamiamo democrazia – come è avvenuto nel 2016.

    Facebook non vuole impedire ai politici di usare le pubblicità né verificare se i messaggi pubblicitari contengono falsità. Twitter, al contrario, ha deciso di abolirle del tutto, le pubblicità politiche, perché il consenso bisogna guadagnarselo, non comprarselo. La decisione di Twitter è potenzialmente una svolta: se questo è l'inizio della rivoluzione, se anche Facebook sarà costretto dalle pressioni – tantissime, di ogni genere – a rivedere la gestione delle ads, che valgono il 5 per cento dei suoi ricavi, non poco, allora Jack Dorsey, creatore di Twitter, diventerà il pioniere di un processo di responsabilizzazione inevitabile, ancorché in ritardo – e che nulla fa, per il momento, contro il cosiddetto branco dei lupi da tastiera, con bot e troll ad amplificare il messaggio. In questo senso, l'inchiesta stupenda del New York Times sui tweet di Trump, dal primo all'ultimo, è esemplificativa: il presidente ha rituittato almeno 145 account non verificati che ripetono slogan estremisti e teorie del complotto – di questi circa venti sono stati in seguito sospesi da Twitter. Ma da QAnon alle teorie sul “deep state” la nuvola twittarola di Trump è grande, e decisamente molto attiva.

    Quel che colpisce, di questo dibattito, è il tempo verbale utilizzato da tutti gli interlocutori. Stiamo facendo, stiamo appurando, stiamo introducendo. Le primarie democratiche iniziano a gennaio, c'è un processo di impeachment in corso in cui sta venendo triturata tutta la classe politico-diplomatica degli Stati Uniti e anche la nostra capacità di distinguere i fatti dalla propaganda, ci sono anche altre elezioni in altri paesi democratici – come quelle britanniche, non dimentichiamo che pure sulla Brexit le ingerenze non erano state poche – e la classe dirigente, dalla Silicon Valley ai palazzi della politica, sta valutando il da farsi. Eppure il 2016 non è ieri, che il re fosse nudo è stato detto più e più volte, lo scandalo di Cambridge Analytica ci è piombato addosso con una forza tale che non potevamo, non possiamo, più dire che non avevamo capito. Eppure. Quando Facebook ha parlato della Internet Research Agency, la domanda più naturale non poteva che essere: esiste ancora? La fabbrica di troll è operativa? Yevgeny Prigozhin, il celebre cuoco di Putin (uno che negli anni Ottanta è stato nove anni in prigione per frode e furto, che è uscito e ha iniziato un'attività di catering che poi è diventata una catena di ristoranti di lusso a San Pietroburgo in cui il presidente russo ama andare a festeggiare il compleanno) è stato messo sotto sanzioni dal dipartimento del Tesoro americano per “ingerenza nelle elezioni del 2018”, quelle di metà mandato: cioè nel 2018 è accaduto quel che era accaduto due anni prima, siamo noi che eravamo distratti. Oggi la Internet Research Agency non si chiama più così, ma è stata trasformata nella Federalnoe agenstvo novostej (Fna), la sede non è cambiata e sapete cosa fa? Siti di news, 200 giornalisti che fanno informazione, o disinformazione, difficile che ci occuperemo della differenza: siamo soltanto malati di russofobia, giusto?

    Il famigerato rapporto sul Russiagate del procuratore speciale Robert Mueller è politicamente morto, però esiste. Anzi: visto che non è un'arma politica funzionante si potrebbe prenderlo per quello che è, cioè il racconto di una macchina digitale con l'obiettivo di distorcere il processo informativo che forma l'opinione degli elettori. Sarebbe utile: un manuale operativo del nemico – l'Ira, per dire, ha raggiunto nel 2016 126 milioni di persone su Facebook, ma era attiva su tutti i social – non capita tutti i giorni. E in questo rapporto si descrive l'attività dell'Ira dal 2014, con l'obiettivo di destabilizzare l'America al suo interno amplificando le fratture esistenti, e spostando il seguito online in proteste “fisiche”, nel mondo reale. Parte del lavoro è stato fatto con le ads, che molti deputati e senatori americani non sapevano cosa fossero, nel 2017, e forse nemmeno oggi. Ryan Lizza, giornalista brevemente caduto in disgrazia per il #metoo, ha raccontato su Politico le paure dei democratici per le ingerenze straniere e per la disinformazione dei trumpiani. Lizza ha visionato le email del Democratic National Commitee, con tutte le allerte, le richieste di intervento fatte ai social, la frustrazione di non essere ascoltati come si vorrebbe. In conclusione Lizza scrive: “Nelle politiche dei democratici sta emergendo un consenso sul fatto che queste piattaforme (Google, Facebook&Co) sono la minaccia principale per il candidato che infine sarà scelto” per sfidare Trump. “Sta emergendo”, adesso.

    Circola molto un articolo bellissimo scritto dalla giornalista Katherine Miller su quanto è cambiato il senso del tempo negli ultimi dieci anni. I social, la tv, Netflix, persino il trumpismo hanno scardinato la percezione del tempo, “il tempo algoritmico” finisce per capovolgere il tempo fisico: “Quello che devi per forza dire, quello che stai aspettando è sempre lì, ti spinge su e giù e poi di nuovo su ancora, ancora, ancora. Chi è che si può più ricordare qualcosa?”. Sembra la sintesi di quel che è avvenuto tra il 2016 e oggi, un grande slancio emotivo verso il “mai più” e poi nemmeno un pomeriggio per studiare da vicino cosa è accaduto, cosa si può fare per evitare che certe distorsioni si ripresentino uguali. Boris Johnson, premier inglese che cerca di essere confermato al voto del 12 dicembre, ha tra le mani un rapporto sulle ingerenze russe nel referendum del 2016 ma ancora non lo pubblica, pure se i parlamentari che ci hanno lavorato hanno indagato e mostrato molte incongruenze tra le testimonianze del Vote Leave e la ricostruzione dei fatti. Siamo ancora fermi, sospesi. Poi ci sono quei canti per niente virtuali che si sentono contro Trump e, ancora domenica, a un comizio del democratico Bernie Sanders. “Lock him up”, gridano i sostenitori di Sanders, riprendendo lo slogan tremendo del trumpismo rivolto a Hillary, “lock her up”. Eccolo, il tempo ingoiato di fretta: sa tanto di tempo perso.

    Paola Peduzzi

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi