Cosa c'è dietro alla whatsapp revolution

Rolla Scolari

    C'era un tempo, in Libano, in cui quando qualcuno ti lasciava i suoi contatti scriveva o diceva: “Cellulare: +961…”. Oggi scrive o dice: “WhatsApp: +961…”. Perché quasi nessuno nel paese utilizza più i servizi di telefonia mobile per fare una chiamata. E non stiamo parlando di comunicazioni all'estero, bensì di telefonate in casa, quelle al fidanzato, all'amica, alla zia, o per prenotare il ristorante. Non è quindi un caso che la rivolta che da metà ottobre agita la piccola nazione levantina sia già passata alla storia come “la rivoluzione di WhatsApp”. Intendiamoci: non lo è, non è una rivoluzione di WhatsApp. E' tanto altro: è malcontento legato a una devastante situazione economica, è un'inedita contestazione contro un regime corrotto, contro decenni di sistema confessionale che genera clientelismo e ruberia, è soprattutto il desiderio di una politica gestita dalla meritocrazia e non dall'appartenenza a una comunità. WhatsApp però in tutto questo c'entra, e molto. Perché è stata la rabbia generalizzata innescata dalla proposta del ministero delle Telecomunicazioni di una tassa di 0,18 centesimi di euro al giorno sul popolare servizio a fare esplodere un dissenso trasversale. Quei 5,5 euro in più sul bilancio del mese hanno compiuto un piccolo miracolo, mettendo d'accordo nella contestazione al governo non soltanto diverse generazioni, ma unendo nelle piazze tutte le comunità religiose di un paese frammentato fra 18 diverse confessioni. “La tassa su WhatsApp è stato il punto di non ritorno, c'era frustrazione da anni. In ogni rivoluzione esiste questo punto – dice al Foglio Innovazione Lina Hamdan, attivista, ex candidato indipendente nelle elezioni del 2018 per un seggio sciita contro i movimenti egemoni Hezbollah e Amal, oggi membro di un comitato per coordinare la rivolta. E' sabato, undicesimo giorno di protesta, e la vicina piazza dei Martiri risuona di canti, cori contro il governo, risate ed entusiasmo.

    Per capire il ruolo di WhatsApp nella costruzione del dissenso è sufficiente guardare a numeri e statistiche. Il Libano ha i pacchetti di telefonia mobile e dati prepagati più cari dell'intero medio oriente e nord Africa, secondo una ricerca del 2017 dell'Arab Advisors Group, società di consulenza giordana, citata dal rapporto Freedom on the Net 2018. Non si fa fatica a parlare di monopolio. L'industria delle telecomunicazioni è in larga parte controllata da aziende pubbliche, nello specifico da una compagnia, la Ogero, che vende licenze a diversi provider internet come Cyberia, Terranet, Sodetel, IDM. Le due compagnie di telefonia mobile statali, Alfa e Touch, sono gestite da società private: Orascom-Telecom Holdings e Zein. I prezzi però li fissa il governo, non c'è quindi alcuna competizione sul mercato. In un paese in cui, sempre secondo il rapporto Freedom on the Net, il 76 per cento della popolazione ha accesso a internet, la lentezza delle connessioni e l'altra enorme piaga nazionale, i tagli di corrente di almeno tre ore al giorno, spingono molti a lavorare da ristoranti e bar, internet caffè e spazi di coworking, mentre i prezzi proibitivi delle comunicazioni telefoniche hanno rafforzato l'utilizzo di servizi Voip, come Skype e, appunto, le chiamate su WhatsApp. Tra il 2017 e il 2018, le rendite del settore, secondo i dati del ministero delle Telecomunicazioni libanese ripresi dai media locali, sarebbero diminuite del 33 per cento proprio a causa di questa fuga verso realtà come WhatsApp. La tassa proposta, quella che ha innescato la protesta, avrebbe potuto portare nelle casse dello stato 250 milioni milioni di dollari all'anno attraverso i tributi pagati da 3,5 milioni di utenti stimati dei servizi Voip. L'affronto è stato però troppo pesante per una popolazione affaticata da un'economia che secondo il Fondo monetario internazionale è cresciuta nel 2018 soltanto dello 0,2 per cento.

    Il Libano ha il terzo debito pubblico più vasto al mondo, un tasso di disoccupazione pari al 20 per cento, e da anni il paese ospita 1,5 milioni di profughi su una popolazione di quattro milioni. La Banca mondiale stima che a causa della crisi siriana e dell'alto afflusso di rifugiati, 200mila libanesi siano stati spinti in uno stato di povertà. Anche il turismo stenta, come spiega al Foglio Innovazione Joe Faddoul, economista libanese: c'era un tempo, fino a pochi anni fa, in cui Beirut in estate diventava la meta preferita dei turisti del Golfo, che hanno investito per anni in lussuose proprietà immobiliari. Quei moderni attici con vista mare ora sono vuoti. Le tensioni tra Arabia Saudita e Iran, protettore e finanziatore di Hezbollah, partito di Dio e milizia al governo in Libano, hanno interrotto le vacanze levantine degli arabi del Golfo, affievolito non soltanto i loro investimenti, ma anche le rimesse di quei quasi 700mila libanesi residenti tra Emirati arabi, Kuwait, Bahrein, Arabia Saudita e nel resto dell'area. “E' un gran male il confessionalismo, ma non è quello il vero problema economicamente. Il problema è l'occupazione. Quella iraniana. Il suo strumento è puramente locale e si chiama Hezbollah – dice Toufic Gaspard, economista che ha lavorato come consigliere al Fondo monetario internazionale – La politica estera in Libano non è naturale: si allinea con l'Iran e non con gli arabi del Golfo, dove vivono migliaia di libanesi. E i turisti sauditi sono andati via con i loro investimenti”.

    La tassa su WhatsApp ha innescato una rabbia latente da mesi, e condita da notizie ed eventi che non hanno fatto che inasprire il malcontento. Il 30 settembre, il New York Times ha rivelato che il primo ministro Saad Hariri nel 2013 ha donato 16 milioni di dollari a una modella sudafricana di costumi da bagno. Il politico, che è sposato, non ricopriva in quell'anno cariche istituzionali, e il danaro offerto non proveniva da fondi pubblici ma dalle casse di famiglia, ben fornite secondo Forbes, che stima la sua fortuna a 1,5 miliardi di dollari. La notizia però faceva irruzione in Libano mentre i dipendenti del quotidiano libanese in lingua inglese, il Daily Star, di sua proprietà, non erano pagati da quattro mesi. Quindici giorni dopo lo scoppio dello scandalo, due prima dell'inizio della rivolta, il Libano è stato colpito da una serie di intensi incendi, domati attraverso l'assistenza di nazioni straniere, a causa dell'incapacità di intervento di un governo locale che impone tasse senza offrire in cambio servizi. Tutto questo ha fatto infiammare la collera popolare.

    A terrorizzare gli economisti, oggi, è la possibilità della svalutazione della lira. Benché il primo ministro Hariri, prima di dare le dimissioni dopo 13 giorni di proteste, abbia annunciato un pacchetto di riforme economiche, in pochi sostengono la loro validità. La contestazione, inoltre, non è circoscritta alle piazza di Beirut: gruppi di giovani bloccano le strade al nord al sud, scendono in strada in città come Tripoli, Tiro, Sidone, Nabatieh, Byblos, Baalbek, per giorni scuole e università sono rimasti serrati, assieme a negozi e commerci, pesando così su un'economia nazionale già provata. Le banche hanno riaperto il 1° novembre, dopo due settimane di chiusura.

    In piazza ci sono anche i veterani dell'esercito, come André Bou Maachar, generale in pensione e membro di un neo-comitato che mira a organizzare la protesta, e di cui fanno parte oltre 50 gruppi della società civile. Da anni, ci spiega, “protestiamo contro l'abbassamento dei nostri stipendi e incentivi. E' da quando ci è stato risposto che lo stato non ha abbastanza soldi per pagarli che mettiamo in discussione il sistema di gestione economico e finanziario del governo”. La questione sollevata dall'ex militare non è banale in un contesto di disordini sociali. “Il pericolo”, spiega ancora Faddoul, “è che l'esercito e le forze di sicurezza interne, quelle che mantengono un po' d'ordine in una regione dove prevale il disordine, smettano di farlo nel vedere il loro stipendio ridotto”, rendendo così più imprevedibile una contestazione che non sembra destinata a svanire definitivamente. Perché, dice l'economista Toufic Gaspard, “se sono scesi in piazza per cinque euro e mezzo di WhatsApp, che cosa faranno se crollassero la lira e i loro stipendi?”.

    WhatsApp da causa della protesta è diventato nel frattempo strumento di organizzazione. In realtà, lo è stato fin dalle prime ore, quando l'invito a scendere in piazza è circolato proprio, neanche a dirlo, su WhatsApp. Sul servizio di chat ci si dà appuntamento alle manifestazioni, ai dibattiti, si scambiano video e immagini di una contestazione sempre più fantasiosa, si creano gruppi per condividere materiale. Uno apposito è stato creato da chi da settimane occupa “the Egg”, iconico ex cinema dalla forma di uovo, in rovina dai tempi della guerra civile che ha devastato Beirut tra il 1975 e il 1990. I manifestanti che rivendicano fra l'altro spazi pubblici di dibattito, lo utilizzano ora per incontri a microfono aperto sul futuro possibile del Libano. Su WhatsApp, spediscono inviti e forniscono traduzioni delle discussioni. Il governo ha ritirato la tassa da cui tutto è cominciato fin dalle prime avvisaglie di dissenso. Era però già troppo tardi: ci vorrà infatti ben altro per soddisfare la rivoluzione di WhatsApp.

    Rolla Scolari