Il cosmo inquieto

    “Più di tutto mi ricordo il futuro” (Salvador Dalí)

    Fu fatta un'obiezione inquietante all'universo di Newton. L'avanzò un politico inglese nel 1692, cinque anni dopo i Principia. Se la gravità è puramente attrattiva, osservò Richard Bentley, e non c'è alcuna forza repulsiva, ogni pur piccola difformità in un gruppo statico di stelle avrebbe innescato il collasso gravitazionale: l'universo, retto solo dalla gravità, risultava instabile. Newton vacillò. L'obiezione era sconcertante. Ma assolutamente fondata. La risposta fu impacciata. La gravità avrebbe tenuto il cosmo in equilibrio, affermò Newton, a due condizioni: che il numero di stelle fosse infinito, in modo che ogni stella tenesse l'altra e si creasse così equilibrio; che le stelle fossero distribuite in modo uniforme e, soprattutto, che fossero uguali tra loro. Nessuna delle due condizioni era vera. L'universo di Newton, lasciato in balia della sola gravità, non stava in piedi. Einstein ridisegnerà la gravità e il cosmo.

    L'“azione a distanza”, la teoria della gravità di Isaac Newton, crolla un pomeriggio del 1919, il 6 di novembre, alla Burlington House in Piccadilly a Londra. Una solenne riunione della Royal Society, la più antica e prestigiosa associazione scientifica inglese, è chiamata a valutare i risultati di un singolare esperimento: la misura della deflessione del raggio di luce di una stella, nel passaggio in prossimità del Sole. Si sapeva che la gravità piegava pure la luce ma si era incerti sui calcoli. L'esperimento era diventato una sfida tra l'azione a distanza (la gravità per Newton) e l'universo curvo (la gravità per Einstein). Le due teorie davano numeri diversi. L'esperimento, condotto durante un'eclisse di Sole nel maggio del 1919, confermò i calcoli di Einstein: Newton era smentito e lo scienziato ebreo tedesco divenne una star. Einstein aveva impiegato 12 anni per completare la Relatività. Nell'estate del 1900, ventunenne, si era laureato in Fisica, in modo poco brillante, al Politecnico di Zurigo. Nel 1903, con i buoni uffici di un amico italiano, aveva rimediato un posto di lavoro, da impiegato di fascia, all'Ufficio brevetti di Berna. Niente a che vedere con i sogni accademici che nutriva. Ma nel 1905, senza preavvisi, rivoluzionò la fisica: con quattro articoli, più un'appendice, che passeranno alla storia come gli Annus Mirabilis Papers. Con essi pubblicizzò quattro scoperte straordinarie: il comportamento particellare della luce, che si diffondeva sotto forma di pacchetti di energia, “quanti di luce”, che lui battezzò fotoni; la certificazione definitiva della teoria atomica della materia (che ancora non convinceva molti fisici); la ristrutturazione delle idee di spazio e tempo (le loro misure non sono assolute e uniformi per tutti, ma variano a seconda della velocità e della posizione degli osservatori); la costanza, in ogni condizione di riferimento, della velocità della luce. All'ultimo articolo, Einstein aggiunse una postilla che recitava: “La massa e l'energia di un oggetto sono manifestazioni diverse della medesima entità, E=mc2”.

    Queste scoperte costituivano l'edificio della relatività ristretta “(e avviavano la fisica quantistica). Occorreranno, ad Einstein, dieci anni di studio per completare la teoria. Che aveva, a suo stesso dire, due difetti: riguardava solo i moti dei corpi in condizioni inerziali (uniformi e senza accelerazioni) e, inoltre, non considerava la gravità. Insomma, non si occupava della realtà effettiva.

    Nel 1916 pubblicò il risultato di dieci anni di lavoro: un'equazione, detta di campo gravitazionale che, finalmente, generalizzava (applicava alla realtà) i principi della relatività ristretta del 1905. Nacque la Relatività generale. Di colpo risolse, intanto, il dilemma della deflessione della luce e altri che, da secoli, erano irrisolvibili: la precessione del perielio di Mercurio, strani avvitamenti dell'orbita del pianeta più vicino al Sole.

    Newton era davvero superato. Einstein riscriveva l'universo e lanciava una nuova fisica. La formula della massa-energia (E=mc2) dava risposta ad un serio interrogativo cosmico: come si alimentano le stelle? E, soprattutto: quanto durerà il Sole? Non banale. Si temeva che il meccanismo energetico delle stelle fosse di tipo chimico, combustivo. Il che faceva temere tempi brevi di durata delle stelle. Prospettiva non piacevole per i terrestri. Grazie a E=mc2 si scoprì il motore delle stelle: si trattava di processi nucleari, non chimici. Nel cuore delle stelle, la fusione di quattro nuclei di idrogeno (l'elemento più diffuso nell'universo) forma elio (il secondo elemento più diffuso nell'universo) e libera enormi quantità di energia. Quanta energia? Esattamente quella descritta nella formula di Einstein: moltiplicando l'enorme massa di idrogeno (m) di una stella per il quadrato della velocità della luce (c), che viaggia a 299.792,458 m/s, risulta una quantità di energia (E) di misura fantastica. Il Sole ci riscalderà per parecchio ancora: ha riserve di idrogeno sufficienti, almeno, per 5 miliardi anni. Ma come si arriva alla relatività generale, alle sue difficilissime equazioni e alle rivoluzionarie scoperte Di Einstein sullo spazio, sul tempo e sulla gravità?

    E' strano: Einstein non partì dalla domanda di Newton – come si muovono i pianeti – ma da un interrogativo del tutto diverso: “Come si muove la luce?”. La fisica degli anni 30 era alle prese con questo dilemma. Non si trattava di una disputa accademica: il mondo stava entrando nell'epoca dell'elettricità. E delle sue straordinarie ed epocali innovazioni. Einstein poi aveva, persino, un interesse familiare al tema: il padre e lo zio (che aveva su di lui una certa influenza) avevano creato un'azienda che investiva sull'elettricità. Qual era il problema? Un fisico scozzese, James Clerk Maxwell, aveva rivoluzionato la teoria della luce scoprendo che essa si diffonde sotto forma di onde, create da forze chiamate cariche elettriche e magnetiche, che danno vita a un campo, elettrico e magnetico, che si propaga nello spazio alla velocità di 300.000 km/s. La luce che vediamo diffondersi da una sorgente (il Sole o la presa elettrica) è niente altro che questo campo di onde.

    Nei Papers del 1905, Einstein aveva scoperto che la luce, che si diffonde come onde, è però costituita da quanti di energia. Dunque, ha questa stranissima particolarità: è onda e particella insieme. E, inoltre, la luce, chiariva Maxwell, non è la totalità del campo elettromagnetico, dei fenomeni elettrici e magnetici radiativi che sono intorno a noi. Ma, solo la parte visibile dell'intero spettro delle onde elettromagnetiche. Che si manifesta in varie altre forme di radiazione (onde radio, microonde, infrarossi, visibile, ultravioletto, raggi x, raggi gamma). Sono tutte lo stesso fenomeno: onde elettromagnetiche. E si distinguono, tra loro, in base alla frequenza (picchi di onde in un secondo) e alla lunghezza (distanza tra due picchi). Nel 1930, la scoperta di Maxwell aveva sollevato due interrogativi: in cosa si muovono le onde elettromagnetiche? E perché viaggiano, esattamente, a 300.000 km/s? Ragionando su queste due domande Einstein arriva a introdurre i concetti di spazio e tempo.

    Ogni onda che si conosceva, ad esempio quelle del suono o le onde del mare, si comportava come una vibrazione, un'oscillazione in un mezzo, una sostanza in cui le onde viaggiavano (l'acqua del mare o l'aria). Ma in che cosa, invece, vibra l'onda di luce? Per Maxwell la luce vibrava nell'etere: la sostanza caduta in disuso con Newton. La cosa turbava. Inoltre, Maxwell aveva dedotto la velocità della luce con esperimenti fatti sulla Terra. La velocità che aveva dedotto (300.000 km/s) valeva anche in altri contesti? Per la luce del Sole o nello spazio interstellare? C'era un problema. Galileo e Newton avevano sostenuto che la velocità di un corpo non è assoluta ma sempre relativa: dipende dal riferimento rispetto a cui la si misura. Ad esempio, se corro a piedi con uno che corre in una macchina in movimento, alla velocità dei piedi si somma quella della macchina per il corridore sul mezzo. Valeva la cosa anche per la luce? Era, anch'essa, una velocità relativa, che si somma ad altre? Ad esempio, a quella di un eventuale vento d'etere che la spingesse? Due fisici americani, Abraham Michelson ed Edward Morley, nel 1887, avevano risolto il dilemma: l'etere non esisteva. Non aveva alcuna incidenza sulla velocità della luce. Con un ingegnoso esperimento, un interferometro, lo avevano certificato: la velocità della luce non subiva modificazione alcuna se posta in solidarietà con un supposto vento d'etere o se posta in contrasto con esso. La fisica poteva, finalmente, liberarsi dell'etere. La luce, andava preso atto, si sposta sempre (nel vuoto) alla sua velocità massima e assoluta: 300.000 km/s. Nei Papers del 1905, Einstein aveva dimostrato che questa era una legge di natura, una costante, insuperabile e universale. Ma se non cambia la velocità della luce, ecco il problema, qualcos'altro deve cambiare, per fare in modo che essa, alla fine, risulti sempre costante. Fu così che Einstein si vide costretto a rivoluzionare i concetti di spazio e tempo. Nei Papers, con l'aiuto di grandi matematici e fisici del tempo, era giunto a una conclusione sorprendente: spazio e tempo, presi separatamente, sono un'illusione. La fisica e la filosofia classica, da Newton, a Galilei e a Kant, erano baloccate da un equivoco: quello dello spazio (vuoto contenitore) e del tempo (che scorre uguale per tutti) separati. L'indipendenza di spazio e tempo, ecco la straordinaria scoperta di Einstein, non era compatibile con l'assolutezza della velocità della luce. Occorreva mischiare spazio e tempo, vederli come una nuova e unica entità: lo spaziotempo. Alle tre dimensioni dello spazio – lunghezza, larghezza, profondità – ne va aggiunta un'altra: il tempo. Che significa costanza della luce? Che ogni osservatore, in qualunque sistema di riferimento si trovi (in moto o fermo) deve misurare, in qualunque esperimento o misura faccia, lo stesso valore di velocità della luce: 300.000 km/s. Insomma, la luce non si somma né si sottrae.

    Banale? Niente affatto. Questa regola porta a impreviste conseguenze. Che valgono solo per la luce. Nella realtà corrente, fateci caso, le velocità si sommano. Per la luce, e solo per essa, questo non vale. Facciamo un esempio: due persone lanciano due palloni, uno da fermo e l'altro da un'auto in movimento. Il pallone lanciato da quest'ultimo, ovviamente, arriva molto più lontano dell'altro: alla forza del braccio del lanciatore in auto si somma, infatti, la velocità della macchina. Chiaro, banale, intuitivo. Se ripetiamo l'esperimento con la luce, però, non vale più. Mettiamo due torce, al posto dei palloni e ripetiamo la prova: il raggio, lanciato da fermo, supera l'uomo in macchina. Dal suo punto di vista, infatti, il raggio della torcia, lanciato dal concorrente fermo, lo supera per l'intero valore della velocità della luce. La velocità del segnale della sua torcia non si è sommata alla velocità dell'auto. E' come se la macchina fosse rimasta ferma. Che è successo? Una magia? No. Semplicemente, la Natura fa qualcosa di sorprendente: per far risultare assoluta la velocità della luce, rallenta il tempo del corridore e modifica le misure spaziali. Se, dall'esterno dell'auto in corsa, si gettasse uno sguardo all'orologio del corridore, si vedrebbero le sue lancette scorrere più lentamente (come in una moviola) e se si misurasse la lunghezza dell'auto in corsa, nella direzione del moto, essa risulterebbe più corta che alla partenza. Insomma, il tempo sull'auto è rallentato e il suo percorso si è allungato (auto ristretta) per permettere alla luce di esibire lo stesso valore di velocità: 300.000 km/s. Il tempo diventa una variabile. Non scorre uguale per tutti. Non è quella sorta di tempo di Dio, come lo chiamava Newton: “Assoluto, vero, matematico… che scorre uniformemente”.

    Einstein era arrivato, prima di ogni altro al mondo, a capire le conseguenze inquietanti della velocità della luce: “Se essa deve essere certezza, deve cadere allora qualche altra certezza”. Pare che il giorno che lo capì sia corso, affannato, alla casa del fraterno amico italiano, Michele Besso, per confessare trafelato: “Ho trovato la soluzione, se la velocità della luce è assoluta, allora il tempo non può esserlo”. E' solo un'illusione pretendere che lo sia. La conseguenza inattesa di questo stravagante comportamento del tempo è una: occorre rinunciare al concetto di simultaneità degli eventi, alla possibilità che si possa affermare, con certezza, “che due eventi accadano nello stesso istante”.