Tante lingue niente razza
C on la tuba in testa, il vecchio esploratore e naturalista Alexander Von Humboldt scende dalla carrozza all'alba di un paese deserto nella Germania dell'Ottocento, immaginando di incontrarvi un “collega” di studi e di terre lontane, questo Jakob Simon con cui da tempo corrispondeva per lettera. E che invece non è un suo pari, è un ragazzo sognatore e invecchiato, che non ha mai potuto emigrare in Brasile, come hanno fatto tanti della sua terra, ma ha studiato e comparato le lingue dei popoli indigeni di quell'altra patria sognata e lontana, penetrandone i segreti e i pensieri. Chissà, forse uguali ai suoi, nel profondo e oltre ai suoni. Il von Humboldt che appare come una visione sul finire di L'altra Heimat - Cronaca di un sogno di Edgar Reitz (ultima parte, 2013, del suo monumentale film-fiume sulla storia della Germania) aveva un fratello, Wilhelm, meno viaggiatore ma che ha lasciato un segno nella storia dello studio delle lingue. E quando si parla di Heimat, di terra e patria, anche oggi la lingua prima o poi gioca un ruolo importante. Per dividere chi sa elaborare un pensiero superiore da chi non sa nominare con la stessa precisione le cose. Wilhelm von Humboldt, in quel crogiolo in cui si andavano formando le teorie linguistiche e più tardi anche le teorie della diversità e superiorità di una razza sull'altra che fu la Germania dell'Ottocento, sosteneva che si dovesse prima farne una catalogazione e una comparazione. Ma esprimeva “comunque una sua idea per cui le lingue flessive (come la sua o le nostre europee, ndr) sarebbero superiori alle altre”. Da quando gli uomini riflettono sul loro linguaggio, cioè da sempre, una delle idee più diffuse è che ogni lingua, ogni modo di formare parole e farne definizioni di concetti e azioni esprima un modo di vedere il mondo, di percepirlo. Da qui a stabilire che tanto più una lingua è ricca di parole, verbi, flessioni, capacità di astrazione tanto più è espressione di una civiltà superiore, il passo è ancora lungo. Ma a volte è stato breve. Nell'Ottocento (e Novecento) in molti paesi d'Europa, non soltanto in Germania, il passo è stato molto breve. La superiorità di un certo tipo di lingue e di sintassi divenne uno degli aspetti che dimostravano la superiorità di una razza o una civiltà. Non tutti i linguisti la pensavano così, ovviamente, anzi basterebbe De Saussure a dimostrare che la linguistica più aggiornata la pensava al contrario. Ma avvenne.
Oggi, per motivi di carattere sociale o politico, qua e là si sta regredendo a un'idea di diversità e superiorità, dunque di valore e di divisione, che nulla c'entra con la linguistica che nel frattempo è avanzata per la sua strada. Però ci sono le lingue e le culture degli “altri”, percepite come inconoscibili e portatrici di idee inconciliabili. Ci sono politici, per stare in Italia, che fanno dell'identità nazionale, dunque anche della lingua, il contenuto dei loro comizi (“Non me lo toglierete!”). Persino nel separatismo catalano l'alterità linguistica esercita una potenza simbolica enorme. E' il momento di ripetere con chiarezza che la lingua è invece ciò che accomuna tutti. Così la pensa il linguista Andrea Moro, che lo ha fatto con una magnifica carrellata in cui spiega come sono state studiate le lingue, letteralmente con “sei lezioni sul razzismo”, come da sottotitolo di un libro da poco pubblicato, La razza e la lingua (La Nave di Teseo), molto attuale e illuminante anche senza essere specialisti della materia.
Andrea Moro, che da anni si dedica a studi di neurolinguistica e al rapporto tra cervello e lingue umane, poggia le sue argomentazioni sulle spalle di un gigante, gli studi e le teorie di Noam Chomsky di cui è allievo e da lungo tempo collaboratore negli sviluppi più recenti della ricerca linguistica. “Oggi, a differenza dell'Ottocento, abbiamo prove dirette” di quanto l'ipotesi che “esistano lingue migliori delle altre sia falsa prima che pericolosa e dannosa”, scrive Moro. Eppure è un'idea che è “riattecchita”, almeno “nel senso comune”. Moro spiega, con l'incedere cristallino dello scienziato, che la lingua è una struttura profonda, anzi un vero tessuto del cervello, comune a tutti gli uomini: la capacità di elaborare il linguaggio e designare il mondo non muta in base ai modi in cui lo facciamo dalla nascita, in modo naturale.


Il Foglio sportivo - in corpore sano
Fare esercizio fisico va bene, ma non allenatevi troppo
