Anche la laicità ha le sue coordinate etiche
La protezione della vita e la libertà di chiedere un aiuto nel congedarsi da una non più dignitosa
Il tempo della loro ridefinizione e del loro aggiornamento coincide con il tempo di una civiltà considerata nel suo insieme. Se l'ordinamento può, come tu auspichi, ritrarsi dallo spazio pubblico senza che questo diventi una giungla abitata dai soggettivismi in conflitto, è perché i relativi-assoluti sono condivisi e in un certo senso cogenti, anche in assenza di sanzioni. La protezione della vita informa di sé tutto l'ordinamento in quanto valore cardine di civiltà. La democrazia l'ha assunta a difesa di un bene indisponibile, dapprima trasponendo nello spazio della laicità concetti e limiti propri della fede religiosa, che vuole la vita intangibile in quanto dono di Dio. Oggi però essa può legittimarla come un principio di precauzione, in nome di una visione per così dire ecologica dell'esistenza. Il concetto di sostenibilità, che è tanto caro ai neonascenti movimenti giovanili in tutto il mondo, e che ha il merito di riagganciare la lotta per i diritti alle responsabilità collettive, ha nella protezione della vita un target da perseguire in ogni forma e in ogni specie, da quella umana a quella animale, a quella vegetale, fino alla difesa di quell'ecosistema che pure vita in senso tecnico non è, ma che con la sua preservazione la vita garantisce.
Ho usato il paradigma del principio di precauzione perché mi pare il più adatto ai tempi, per interpretare e giustificare la protezione della vita. Si tratta, com'è noto, di un criterio di condotta coniato in Germania alla fine degli anni Settanta, per definire un livello di compatibilità tra lo sviluppo tecnico-scientifico, necessario al progresso dell'umanità, e il controllo dei rischi e delle minacce associate a tale sviluppo. Ispirandosi alle esigenze di tutela dell'ambiente e della salute umana, animale e vegetale, e tenendo conto delle necessità vitali non solo delle generazioni presenti, ma anche di quelle future, esso rappresenta quella che potremmo definire una bussola nel dubbio dell'agire. Trasposto nel campo che è oggetto della nostra riflessione, non ti pare che il principio di precauzione dovrebbe informare le politiche pubbliche alla protezione della vita, in quanto valore laico e universale, anche in tutte quelle condizioni in cui la vita può apparire dimidiata da gravi compromissioni o è destinata a cessare in un tempo presumibilmente breve?
Ora prendiamo pure atto che il darsi morte è una facoltà della condizione umana, e riconosciamo che la rinuncia alle cure e a ogni trattamento di sostegno vitale è un diritto dell'uomo, per congedarsi da una vita che egli, soggettivamente, non ritiene più compatibile con il proprio concetto di dignità. Ma può lo Stato fornire, a richiesta, morte o aiuto al suicidio senza il rischio che quello “spazio libero da diritto” venga occupato da un diritto altrettanto pervasivo, che pretenda di misurare e stabilire la dignità della vita con parametri oggettivi? Immagino la tua obiezione a questo interrogativo: mi dirai che il rischio non sussiste se la volontà individuale resta il dominus di questa valutazione. Mi chiedo tuttavia se una simile impostazione, fondata su un concetto di dignità auto-percepita dal soggetto, non modifichi il fondamento di tutela del bene vita: cosicché l'ordinamento non protegge più la vita in sé e per sé, ma il bene vita fintantoché il suo titolare lo voglia. Certe confusioni avvengono nella cultura, prima ancora che nella prassi. Non ti pare che l'altra faccia del soggettivismo, che riconsegna la disponibilità del vivere e del morire all'arbitrio individuale, sia un materialismo che considera la vita indegna sotto una certa soglia di parametri e teorizza quasi un dovere di darsi morte, coniugandosi con un'ideologia scientista che punta, grazie alla tecnica, a estirpare il dolore dalla vita? Non cogli accenti di questo tipo nel pensiero di molti tra coloro che si sono battuti per sostenere il diritto al suicidio di Stato?
La Consulta dimostra di aver chiaro questo rischio, quando individua quattro condizioni tassative per depenalizzare l'aiuto al suicidio: tre oggettive, la malattia irreversibile, l'essenzialità dei trattamenti di sostegno vitale e la libertà consapevole di decidere; e una sola soggettiva, il dolore fisico o psichico ritenuto dal malato intollerabile. Quest'ultimo presupposto non pare, nella prospettazione della Corte, né prevalente rispetto agli altri né considerabile separatamente. I quattro criteri stanno rigorosamente insieme a circoscrivere la platea di coloro che potrebbero, in base a una legge futura, richiedere allo Stato l'esecuzione di ciò mi preme definire “rimedio del suicidio”. Ma se, come tu stesso hai argomentato, il motivo per sostituire in alcuni casi la sedazione profonda con il sostegno al darsi morte è un diritto a vincere il dolore, è altissimo il rischio che nella legge e nella prassi il legame tra le quattro condizioni prescritte venga meno. Se il dolore soggettivo è il valore a cui subordinare la protezione della vita, chi può stabilire chi soffre di più? In nome del principio di uguaglianza, il diritto alla cessazione del dolore consentirebbe a platee sempre più ampie di pretendere morte, congedandosi da una vita divenuta intollerabile, o addirittura non all'altezza delle aspettative che un certo modello culturale impone.
Non sarebbe questa un'inconsapevole sostituzione di un diritto del bilanciamento e della precauzione con un diritto dell'arbitro individuale, dietro il quale si disegna un'astratta pianificazione dell'esistenza che pretenda di eliminare il dolore dalla vita? Purtroppo il pensiero approda a conseguenze inintenzionali, quando rinuncia a considerare il limite come il contenuto della libertà. Perciò mi chiedo e ti chiedo, caro Vittorio, che cosa avrebbe da scambiare il nostro comune liberalismo civile con un esito materialista ed edonista di questo tipo.
Caro Alessandro,
la premessa da cui muovono le tue domande trova in me particolare condivisione: anche al di là del caso di specie, credo che sia davvero da salutare con favore – se non con positivo stupore – la ritrazione del diritto penale, e la rinuncia a far uso di uno strumento ormai considerato irrinunciabile misura rimediale per ogni problema sociale, surrogato necessario di politiche pubbliche inconsistenti o inefficienti, persino metro e sostitutivo dell'etica pubblica.
Il diritto penale non può servire a questo, né la pena può essere strumentalizzata sino farne il censore di ciò che è “giusto” o meno, di ciò che si considera etico o immorale.
Ciò detto, e tornando al tema che ci occupa, “spazio libero dal diritto penale” non significa certo “spazio libero dal diritto tout court”: anzi, nel varco aperto dalla sentenza della Corte – come gli stessi giudici evidenziano – è urgente che intervenga il legislatore, per dirimere con la legge i delicati bilanciamenti che si pongono, e il conflitto tra i valori supremi della vita e della dignità umana.
Mi limito, al riguardo, a tre sole considerazioni.
La prima, più generale, è che nello Stato costituzionale di diritto non sono le libertà personali, ma le rispettive limitazioni a dover essere giustificate. Il principio di fondo dovrebbe essere costituito dal rispetto della libera scelta della persona, principio a cui lo Stato può derogare per tutelare interessi di pari rango o anche per tutelare la stessa persona qualora la stessa versi in condizioni di vulnerabilità che impediscano la formazione di una volontà davvero libera e consapevole.
La seconda – più immediatamente riferibile alla “scelta tragica” tra i valori in gioco – è che la indiscutibile primazia del valore della vita, quando si inquadra in un contesto di malattia, sofferenza e dolore, si misura con una condizione nella quale la scelta di morire non è manifestazione di una truculenta volontà di autoannientamento come espressione cieca di massima libertà, ma richiama in campo, piuttosto, un valore altrettanto primigenio e fondativo della stessa persona quale, appunto, la dignità del malato, secondo un concetto che ha basi oggettive ma che è inevitabilmente aperto a valutazioni soggettive di chi è protagonista di una esperienza di dolore eccezionalmente drammatica, aggrappato a una esistenza sorretta da presidi tecnologici che non considera più dignitosa.
La terza è che una tecnologia senza umanità e senza pietas diventa tecnocrazia, dove la stessa vita umana è funzione dello strapotere tecnico, e non più il contrario: un mondo in cui – ha ragione Paul Ricoeur – all'ipertrofia dei mezzi corrisponde spesso l'atrofia dei fini.
Non credo, peraltro, che sia necessario evocare il principio di precauzione, che è una modalità di intervento preventivo generata da contesti di incertezza scientifica. E non riesco a vedere esisti edonistici o materialistici come ineluttabile deriva rispetto a questa decisione, se si rispettano le specifiche condizioni che la Corte ha chiarito nella sua “tetralogia” (malattia irreversibile, protratta grazie a sostegni vitali, accompagnata da sofferenze fisiche o psicologiche, in soggetto lucido e consapevole): non è certo una valutazione puramente soggettiva, rimessa all'arbitrio, all'edonismo o al nichilismo del singolo, ma è ancorata – e mi verrebbe da dire, “inchiodata” – a criteri oggettivi che fondano, e limitano, lo spazio di questa possibilità di scelta drammatica.
Possibilità di scelta che non evoca certo un “dovere di morire” e neppure, forse, un “diritto di prestazione”, ma una libertà di chiedere un aiuto nel congedarsi da un vita non più dignitosa, a cui corrisponde – alle condizioni oggettive e soggettive precisate – la liceità della scelta di chi accoglie la richiesta, dunque una libertà parallela in chi presta assistenza, pur dovendosi riconoscere una pari libertà di rifiutare l'aiuto al suicidio da parte del medico che eventualmente – per convinzioni personali, etiche o religiose – non condivide quella scelta.
L'“indispensabile intervento del legislatore” – come ha evidenziato ancora la Corte – dovrà disciplinare molti di questi aspetti, precisando anche opportunamente – magari – i criteri anticipati dai giudici, e operando appunto un delicato ma doveroso bilanciamento, attento alla specificità dei singoli casi, tra tutti i diritti fondamentali coinvolti, la nostra unica religio civilis.
Alessandro Barbano e Vittorio Manes


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