Un'idea caritatevole di governance per l'occidente laico La strana attualità della struttura monastica

    C osa può dire all'uomo contemporaneo un testo scritto novecento anni fa da un monaco, per giunta indirizzato ad altri monaci e orientato alla disciplina interna di un ordine monastico? E ancora: cosa può dire a un politico di oggi una carta con queste caratteristiche, piena di riferimenti religiosi inaccettabili per uno stato laico e assurdi per un ambiente culturale quasi completamente secolarizzato? Il “Pensiero dominante” di questa settimana si propone di mettersi di traverso rispetto al pensiero dominante – con la lettera minuscola – in materia, riprendendo in mano la Charta Caritatis, documento essenziale dell'ordine cistercense che quest'anno festeggia i novecento anni dall'approvazione. L'ipotesi che qui si sostiene è che gli estensori della carta di carità non abbiano trasmesso soltanto alcuni elementi devozionali della spiritualità cristiana medievale, ma nel delineare le modalità di convivenza all'interno della federazione, per così dire, delle abbazie del tempo, abbiano posto un'idea di società civile e politica che è pertinente anche nel contesto dell'organizzazione democratica del mondo contemporaneo. E soprattutto nel contesto della disorganizzazione democratica di oggi, dove la democrazia liberale vive un momento di crisi e sembra brancolare nel buio, alla ricerca di principi condivisi e ideali sui quali rifondare una nuova stagione. Il gesuita Jean Danielou parlava della preghiera come atto politico, e sul filo di un paradosso analogo si potrebbe definire la carta di carità come un documento di governance, gravido di idee laicamente ricevibili perché orientate a una concezione caritetevole dei rapporti fra le persone e le istituzioni. La democrazia prenda appunti.