
Ma davvero i social influenzano le elezioni? uno studio (e il vero problema, che è un altro)
S ui social i politici sono ossessionati dalla conta di like e fan, quasi come se quei numeri decretassero il successo di un messaggio elettorale e, quindi, la vittoria alle urne. Le “bestie” di turno, però, dimenticano un pezzo del puzzle, che è ben più complesso della semplice conta dei like. “La struttura della rete sociale, ovvero chi è collegato a chi, ha un ruolo fondamentale nell'influenzare l'opinione pubblica”, dice al Foglio Innovazione Alexander Stewart, biologo matematico dell'Università di Houston, in Texas. Nelle scorse settimane uno studio di cui Stewart è primo firmatario, intitolato “Information gerrymandering and undemocratic decisions”, ha conquistato la copertina di Nature, una delle riviste scientifiche più importanti del mondo. L'immagine di cover era un cervello stilizzato, diviso in sezioni, accompagnato da un'affermazione roboante: “Come i social network possono orientare i voti e portare a decisioni non democratiche”. Una frase a effetto che ha entusiasmato chi tende a dare ai social network la colpa dell'ascesa dei movimenti populisti. L'analisi aggiunge un tassello fondamentale nella comprensione di come Twitter, Facebook e WhatsApp potrebbero condizionare i nostri comportamenti, dimostrando che un piccolo numero di bot, cioè programmi informatici che generano automaticamente contenuti simulando il comportamento umano, ha la potenzialità di cambiare l'opinione della maggioranza, soprattutto se indecisa sul da farsi. Conditio sine qua non per il successo è che i bot siano piazzati in maniera strategica tra due camere d'eco in cui rimbombano le stesse idee politiche.
Echo chamber è un'espressione con cui abbiamo acquisito familiarità negli ultimi anni, tanto che ormai è diventata un cliché. Siamo coscienti del fatto che in rete tendiamo ad avvicinarci a persone che hanno le nostre stesse idee politiche. Ma, online come offline, la maggior parte di noi conta nella propria bolla anche individui che la pensano in maniera diversa. Le camere d'eco non sono entità ermeticamente chiuse, si mescolano in vari modi, ed è proprio in questi punti di intersezione che si può verificare un fenomeno che Stewart ha battezzato “information gerrymandering”. Un concetto nuovo che affonda le radici in un metodo usato negli Stati Uniti per manipolare i confini di un collegio elettorale in modo da favorire uno dei partiti in lizza, per esempio concentrando tutti gli elettori di sinistra in un distretto e riducendo la loro influenza negli altri. “In maniera simile, il partito che beneficia dell'information gerrymandering ha la voce più alta in quante più conversazioni online è possibile – dice ancora Stewart – Il modo di riuscirci è controllare il network rendendo la voce dell'avversario troppo alta in alcune conversazioni e troppo fioca in altre”.
Questa disparità di influenza funziona anche a parità di sostenitori e peso mediatico, come i ricercatori hanno testato grazie a un gioco elettorale online a cui hanno partecipato 2.520 volontari. Sono stati divisi in due gruppi di 24 persone chiamate a sostenere due partiti: il giallo e il viola. I partecipanti guadagnavano se il loro partito otteneva almeno il 60 per cento dei voti. Ma, per incentivare il compromesso politico, ricevevano una piccola somma anche in caso di vittoria dei rivali al 60 per cento. Se nessuno oltrepassava quella soglia, invece, non incassavano nulla. Gli elettori potevano modificare la loro preferenza in accordo alla scelta dei vicini mostrata attraverso un social network creato ad hoc. I risultati delle votazioni sono stati prevedibili finché il flusso informativo sull'andamento del voto è rimasto inalterato. Ma sono bastati alcuni bot piazzati strategicamente in modo da far credere alla maggior parte dei membri di un determinato partito che l'altra squadra avrebbe incassato la maggioranza qualificata dei voti per sconvolgere tutto. I giocatori in presunto svantaggio, infatti, hanno spesso modificato il loro voto in favore del compromesso. Grazie a un paio di mosse azzeccate sulla rete sociale interna all'esperimento, i ricercatori sono così riusciti a deviare il flusso informativo (“information gerrymandering”, appunto) e influenzare il voto.
Le implicazioni distopiche che vorrebbero fare dei social strumenti di manipolazione di massa attecchiscono subito nell'immaginario collettivo, ma – suggerisce Marco Cremonini, ricercatore dell'Università di Milano che si occupa di reti complesse – la realtà è più articolata di un modello matematico. Abbiamo una conoscenza vaga dei reali meccanismi di formazione delle preferenze di voto, nonché dei molteplici fattori che concorrono a influenzarli. Ma soprattutto è difficile studiare questi fenomeni sui social network. I dati sono carenti e sappiamo poco, se non quasi nulla, della loro struttura. Gli algoritmi che regolano i social, decidendo quali post vediamo e con chi facciamo amicizia, sono in mani private. Al di fuori, nessuno è in grado di valutare con esattezza la possibile efficacia di strategie social dirette a influenzare i risultati elettorali. Tutto ciò che riusciamo a ottenere sono modelli approssimativi. L'impossibilità di analizzare Facebook è ciò che dovrebbe preoccuparci di più di Facebook.
Rosita Rijtano


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