Mercati aperti, crescita globale

Perché l'integrazione delle economie mondiali ha allargato a dismisura lo stock di capitale, fisico e umano, che poteva essere combinato nei processi produttivi

    Come si giustifica questo esito apparentemente controintuitivo? Secondo gli autori, le persone scelgono principalmente sulla base di quattro moventi, in parte contrastanti: i) il vantaggio economico (quanto ci guadagno a tenermi i soldi?); ii) la quantità di impegno e tempo necessari a rintracciare il proprietario (quanto mi devo sbattere per comportarmi bene?); iii) l'altruismo (quanto ci tengo a sentirmi una brava persona?); iv) l'avversione a percepire se stessi come dei ladri (quanto mi dà fastidio il pensiero di essermi comportato male?). “L'evidenza – ha commentato il filosofo Peter Singer – è che l'altruismo giochi un ruolo nella decisione… Questi risultati sono incoraggianti: è normale sentire la gente lamentarsi che viviamo in un'epoca in cui prevale l'egoismo, i valori morali sono scomparsi e la maggior parte delle persone sarebbero pronte a rubare se avessero la certezza di farla franca. Questo studio offre una solida evidenza che il mondo non è poi così male”.

    Alla base del comportamento osservato, soprattutto nelle società più sviluppate e dove è maggiore il capitale sociale, c'è il concetto di reciprocità: ci comportiamo con gli altri come vorremmo che gli altri si comportassero con noi. Tendiamo, cioè, ad agire in modo corretto non solo quando questo produce un vantaggio immediato (per esempio una ricompensa, o l'assenza di una sanzione), ma anche quando tale beneficio non c'è. La ragione può dipendere dall'evoluzione della nostra specie, che si è sviluppata attraverso la socialità e i mutui legami; ma rimanda anche a un senso di giustizia, cioè al fatto che riteniamo che una buona condotta sia desiderabile in sé. In tal senso, l'altruismo documentato in questa e altre indagini non collide col principio dell'auto-interesse che, da Adam Smith in poi, gli economisti hanno assunto quale motore dell'azione umana. Semmai, il self-interest è qualcosa di articolato e complesso, che si allarga a includere non solo l'interesse di breve termine, ma anche la duplice consapevolezza che la nostra vita si proietta più in là e implica una costante interazione con gli altri. Non è che tutti siano dei santi – altrimenti non avremmo bisogno di leggi e istituzioni che incentivano le condotte virtuose e puniscono quelle socialmente pericolose. Ma non è vero neanche che gli altri siano dei diavoli: nella maggior parte della nostra esistenza non siamo “costretti” a comportarci in modo accettabile. Semplicemente, lo facciamo.

    Ora, che c'entra tutto questo con la globalizzazione? C'entra sotto un aspetto fondamentale, legato alla percezione del mondo attorno a noi: se pensiamo che gli altri – quelli esterni alla nostra famiglia, clan, comunità, paese, razza, religione, colore… – siano potenzialmente malvagi, allora partiamo dal presupposto che dobbiamo difenderci. “Difendersi” è uno dei verbi più frequentemente associati al termine “globalizzazione” nel discorso pubblico italiano, da Luigi Di Maio a Matteo Salvini passando per i principali esponenti del Pd. A dispetto di alcune scelte contraddittorie compiute quando era al governo, Matteo Renzi è forse l'unico leader politico a non aver mai parlato della globalizzazione come di qualcosa contro cui bisogna reagire: anche il manifesto della sua politica economica, affidato a Luigi Marattin e pubblicato sul Foglio la settimana scorsa, parla la lingua dell'apertura, e rigetta un approccio fatto di chiusura e isolamento. Se dobbiamo difenderci, limitiamo le opportunità di interazione, e investiamo a tale scopo risorse che altrimenti potremmo utilizzare in altri modi potenzialmente più produttivi. Dalla sfiducia verso gli altri intesi come individui alla paura degli altri come gruppo, il passo è breve. Così, non fidandoci degli altri, chiediamo ai nostri rappresentanti di proteggerci, limitando la nostra stessa possibilità di intrattenere rapporti, commerciali e umani, con quelli che non conosciamo e quindi ci spaventano. Il paradosso politico di questo atteggiamento non potrebbe essere più stridente: per timore degli altri, vogliamo che siano posti dei limiti a noi.

    La globalizzazione e noi

    Cos'è la globalizzazione? Secondo Wikipedia, “è il fenomeno causato dall'intensificazione degli scambi e degli investimenti internazionali su scala mondiale”. Gli storici dell'economia ricostruiscono diverse ondate della globalizzazione. In particolare, in epoca contemporanea si parla di un primo periodo tra il 1870 e lo scoppio della Grande guerra (quella che Vaclav Simil chiama “l'era della sinergia”, in riferimento all'incredibile fertilità con cui vennero poste le basi delle moderne tecnologie). C'è poi una seconda fase della globalizzazione successiva al secondo conflitto mondiale, che ha subito due forti accelerazioni prima negli anni Sessanta e poi negli anni Novanta. Oggi va di moda (ed è facile) farsi beffe di Francis Fukuyama e della sua “profezia” sulla fine della storia, pronunciata sulle macerie del Muro di Berlino. Ma egli aveva ragione su un punto fondamentale, cioè che il sistema capitalistico – il terreno su cui si è sviluppata la globalizzazione – si è dimostrato evolutivamente superiore a ogni altro meccanismo di allocazione dei fattori.

    Molti descrivono la globalizzazione alla stregua di un progetto: come se essa fosse meramente, o prevalentemente, il frutto di decisioni consapevoli da parte delle élites occidentali degli ultimi decenni. Facile puntare il dito contro i colpevoli, in carne e ossa (Margaret Thatcher, Ronald Reagan, Tony Blair, Bill Clinton…) oppure incorporei (da “l'Europa” al “Washington Consensus” fino a “la Cina” e il Bielderberg). Non c'è dubbio che la costruzione di una fitta rete di trattati di libero scambio, e in particolare quelli che sono maturati in contesti multilaterali, abbia contribuito. Ma sarebbe ingenuo ricondurre agli accordi commerciali qualcosa che ha una genesi più antica, più profonda e che semmai la politica, lungi dal liberare, ha cercato di disciplinare (nel bene e nel male). La globalizzazione è figlia del cambio tecnologico. L'innovazione non è solo lo sviluppo di nuova potenza di calcolo, ma spesso nasce da una diversa organizzazione dei fattori della produzione. Più del telefono, di internet, dei computer, la grande invenzione che ha causato il boom degli scambi nel secondo Novecento è il container: l'intuizione sui benefici della standardizzazione dei contenitori per il trasporto intermodale è relativamente recente, risale al 1956 ed ebbe un successo clamoroso nel decennio successivo. Il container fu cruciale nel ridurre i costi di trasporto delle merci e quindi connettere fisicamente dei mercati che, altrimenti, sarebbero rimasti separati. Ancora oggi, oltre il 90 per cento delle merci in peso (corrispondente a circa il 70 per cento in valore) viaggia per mare, ossia su container.

    Le negoziazioni commerciali hanno creato il contesto giuridico attraverso cui il commercio internazionale si svolge e hanno a loro volta contribuito a ridurre i costi di transazione. Ma sono arrivate dopo e hanno avuto soprattutto la funzione di scrivere delle regole. Non hanno in alcun modo generato il fenomeno. Chi pensa che, impedendo l'adesione della Cina alla Wto nel 2001, le cose sarebbero andate molto diversamente, pecca di ingenuità. Nella misura in cui le cose avrebbero preso una piega diversa, i cambiamenti non ci avrebbero restituito un mondo migliore: il processo di apertura inaugurato da Deng Xiaoping avrebbe rallentato, con un danno potenzialmente enorme non solo per Pechino, ma anche per il resto del mondo, in termini di minore crescita economica e di minore espansione delle libertà civili. (La Cina di oggi, vista dall'Europa del 2019, può apparire un paese del tutto irrispettoso dei diritti dei suoi cittadini: ma, se guardata con gli occhi di un cinese del 1978, sembra quasi un paradiso libertario).

    Mettendo i mercati in comunicazione tra di loro, la globalizzazione ha allargato a dismisura lo stock di capitale (fisico e umano) che poteva essere combinato nei diversi processi produttivi. E' questa possibilità di utilizzare in modo più efficiente capitale e lavoro che ha, infine, stimolato la crescita economica e ulteriore innovazione.