
Il climate change, le parate dei ragazzini e il bacon a colazione
Il cambiamento climatico non è la posta di una battaglia per la salvezza del nostro universo di riferimento. Le minacce antropogeniche alla stabilità terrestre e umana, aggiungerei, sono altre, affondano semmai nella nostra capacità di modificare la genetica, nella nostra superbia faustiana di cui le belle menti dell'Accademia dello small talk e della small science non osano mai occuparsi con una qualche distinzione etica tra quel che si può tecnicamente fare e quel che è sconsigliabile fare (ma su questo i ragazzi restano per lo più all'oscuro delle alternative responsabili al delirio scientista e tecnico). Vero che il grande foglio liberale non considera il climate change come una questione ambientale tra le altre, ragiona su grafici termici allarmanti, prevede una complessa e necessaria azione multilaterale di decenni, partendo da subito, da ieri, per un rimedio che non è la decrescita o il veganismo letterario titillato da Mariarosa Mancuso qui, sabato, con la sua sapienza scettica, ma un capitalismo riformatore e tecnologico. Non è materia per parate e per eventi generazionali con ricchi premi e cotillons, è materiale di stato e di élite.
Alla radice di tutto deve restare, anche se sento già la lezioncina che molti benpensanti mi impartiranno sulla differenza tra clima e meteorologia, un sentimento realista della cosa. C'è una differenza tra il mio mondo e il mio ombelico. Se dico che non mi era mai capitato, tra un'isola greca del Dodecaneso e un quartiere di Roma, di percepire con tanta nettezza, nel giro di una settimana intorno all'equinozio d'autunno, la perfetta variazione di temperatura che divide la stagione calda da quella fresca, bè, niente di scientifico o statistico o previsionale, ma non è un'affermazione ridicola. Se dico che dovete rinunciare al bacon a colazione o trasferirvi in barca con un Casiraghi a New York, invece di prendere un aereo, bè, la scienza sia con voi, ma entrambe le affermazioni sono ridicole.


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