Quanto può sopravvivere un (terzo) partito che cresce grazie all'infelicità degli altri? Il dilemma dei Lib-dem inglesi, e non solo
Milano. Quanto può sopravvivere un partito che fonda il suo successo sul discontento nei confronti di altri movimenti, altri politici, altri leader? E' quello che si chiedono i liberaldemocratici britannici, che pure stanno vivendo una stagione bellissima di consensi e di entusiasmi e di porte aperte con la loro strategia limpida nei confronti della Brexit: non la vogliamo, dicono, non certo nei termini in cui si sta – se si sta – concretizzando. I Tory si spaccano sulla versione dura e morbida del divorzio dall'Unione europea; il Labour si consuma nel trovare la sfumatura giusta alla propria ambiguità (vi è mai capitato di ascoltare un laburista mentre spiega la sua visione della Brexit? Ci mette delle ore); e i Lib-dem ne approfittano, fanno campagna acquisti, diventano il porto sicuro in cui rifugiarsi, si divertono con gli slogan irripetibili – Bollocks to Brexit – e fanno accordi elettorali per evitare di smembrare il voto anti Brexit. Fin dal 2016, i Lib-dem si candidano a guidare il “partito del 48 per cento”, la percentuale di inglesi che si espresse contro l'uscita dall'Unione europea, e ora che l'obiettivo sembra raggiungibile si fanno accoglienti, invitano tutti a Bournemouth, nel “sunny Dorset” (che è spesso grigio) del sud, per ritrovarsi alla convention del partito che inizia sabato. Dopo anni di delusioni e bisticci e pochi rappresentanti ai Comuni, con l'alleanza governativa assieme ai conservatori di David Cameron a sfregiare l'album dei ricordi, i Lib-dem riassaporano il consenso e la centralità, gongolano per il risultato elettorale alle scorse europee (si sono piazzati davanti al Labour e ai Tory, solo il Brexit Party ha fatto meglio) e coccolano la loro nuova leader Jo Swinson che fa appelli contro il tribalismo – venite a me, venite a me – e sposta sempre più verso l'alto la barra di quel che è accettabile della Brexit. Forse persino troppo, dicono alcuni: la Swinson sta valutando l'ipotesi di inserire la revoca dell'articolo 50 – l'annullamento della Brexit – nel manifesto di partito che si deciderà alla convention, ma in questo modo potrebbe allontanare il voto di chi aspirerebbe a una soluzione negoziata e ragionevole per l'uscita dall'Ue.
Pur avendo tirato a lucido la casa, insomma, le crepe si vedono comunque, e non sono tanto legate a errori specifici quanto alle chance di sopravvivenza di un (terzo) partito che si gonfia di capricci e arrabbiature e dispetti di esterni verso altri esterni, rischiando nel frattempo di “perdere la propria anima”, come ha scritto il New Statesman, ricordando che quest'anima è stata parecchio bistrattata nell'ultimo decennio dagli stessi leader liberaldemocratici. Una fonte del partito che ha vissuto da vicino i vari arrivi, in particolare dal Labour, dai Chuka Umunna alle Luciana Berger, l'ha messa così: “E' come con i flirt, parli molto dell'altro, dei suoi sentimenti, di cosa prova, gli fai sapere che a te piace molto, fai qualche pressione e aspetti speranzoso che finalmente faccia il salto” e ti baci. Sul momento è tutto bellissimo, ma intanto i Lib-dem rischiano di snaturarsi, di perdere la loro connotazione originaria, e che cosa avverrà quando non ci sarà più la Brexit di cui discutere: può sopravvivere un partito di ex? La domanda potrebbe richiedere una risposta immediata: se il governo inglese dovesse trovare un accordo con l'Europa, uscire il 31 ottobre e poi organizzare le elezioni, cosa ne sarà del partito anti Brexit, di che cosa parlerà, gli ex Tory ed ex laburisti si fermeranno fuori dalla loro tribù o torneranno nelle loro case? E' il dilemma dei partiti che si nutrono delle insofferenze esterne ma non riescono a trasformarle in una offerta nuova e complessiva, con ovviamente un paradosso tutto inglese: finché c'è la Brexit, per i Lib-dem va tutto bene.


Il Foglio sportivo - in corpore sano
Fare esercizio fisico va bene, ma non allenatevi troppo
