
Questo ceo con la faccia da attore è partito dal coworking e ha creato un impero che sembra un culto
Si può prendere una scrivania, un angolo di stanza, un intero piano: tutto scalabile, turbocapitalismo precarizzante, direbbe Diego Fusaro, e però visti gli affitti di New York e San Francisco o anche Milano, nessuno può più permettersi di mettere su un ufficio, e rimane comprensibile come le meglio società sian state incubate in questi che presto diventano ecosistemi dove ci si scambiano idee e biglietti da visita e competenze (sarebbe poi la continuazione di Starbucks con altri mezzi: dove infatti nessuno va per degustare pregiate arabiche, bensì per penzolare davanti a un computer sfruttando prese elettriche e wifi, senza mamme che ti rimproverano o coinquilini in calzettoni).
E' un'idea certamente vincente, visto il numero di questi centri e la sua varietà – in Italia anzi in Europa abbiamo Talent Garden, in America appunto WeWork, colosso di queste moderne comuni che hanno rivoluzionato il modo di lavorare e di passare il tempo e di passarsi le idee. Il primo WeWork ha aperto a New York nel 2010, e oggi ce ne sono oltre 400, che servono 400.000 clienti o ospiti o “membri”, come vengono chiamati dalla società, che varrebbe 47 miliardi di dollari. Rispetto ad altri concorrenti WeWork è infatti un po' un club, con arredi fichetti, open bar, e oggi anche palestre e addirittura una scuola. E' insomma una Soho House per startuppari, e alla base del suo successo e del suo modello c'è il fondatore, Adam Neumann, belloccio israeliano perfetto campione di una nuova specie di startuppari glamour che rifuggono il modello siliconvallico di ciabatte e brufoli. Neumann, capello lungo, faccia da attore, ha una zia presentatrice televisiva israeliana, e una sorella che è stata miss Teen Israel. Non ci pensa neanche a mischiarsi coi suoi simili flaccidamente in braghe corte della Silicon Valley, ma se ne sta a New York nel Village oppure nel villone agli Hamptons con la moglie, attrice mancata, istruttrice di yoga e per sovrappiù cugina di Gwyneth Paltrow.
Rebekah Paltrow Neumann, oltre ad aver prodotto con lui cinque figli – di cui due coppie di gemelli – si occupa – forse data la cospicua stirpe da gestire – in particolare del progetto educativo dell'azienda, cioè di creare una scuola che dia “un approccio consapevole all'educazione imprenditoriale” dei giovani. Possibilmente il target saranno i figli di startuppari concepiti nei loro spazi comuni a chilometro zero: perché secondo una vulgata recente, WeWork va bene per lavorare e innovare e soprattutto per cuccare, tra feste e open bar leggendari. L'alcol però ultimamente è stato ridimensionato, dopo che l'atmosfera si surriscaldava un po' troppo: due dipendenti hanno anche fatto causa all'azienda perché, sostennero, il clima diventava un po' troppo da caserma – una signorina fu fatta, dice, ubriacare, durante un colloquio di lavoro, tipo “se non puoi sedurla puoi sedarla”, e i flirt tra coinquilini non si contano – del resto è comprensibile: si è tutti della stessa età, sotto i trenta, e non si è proprio colleghi: le startup se tutto va bene diventeranno grandi e avranno un giorno un ufficio vero, da adulti, e se proprio un flirt va malissimo si può sempre cambiare WeWork o almeno piano: insomma è un po' un ufficio e un po' un Erasmus.
Oltretutto in primarie location: anche a San Francisco, tra vasti palazzoni in centro WeWork ha sette avamposti, tutti con la stessa estetica – poltrone di pelle, tavoli di legno chiaro, piante, una specie di Ace Hotel, mentre i prezzi vanno da 550 dollari al mese per un “desk mobile” cioè per la possibilità di appoggiarsi da qualche parte col proprio laptop, ai 2.050 per l'ufficio privato entry level, fino al più grande che viene quasi trentamila. C'è poi la soluzione “headquarter” con un proprio ingresso, rete internet privata, aree reception con logo. Qualunque sia la soluzione scelta, si ha diritto a delle ore di utilizzo di sale riunioni vetrate, in cui si può sbirciare dentro. Per fortuna ci sono le “cabine telefoniche”, dei loculi per entrare e chiamare col proprio telefono senza farsi sentire da tutti (già, perché il bello del coworking e di questi uffici a pianta aperta è che se poi devi dire qualcosa di riservato normalmente vai al bagno).
Di questo regno ragazzino Neumann è il re: quando ha fondato WeWork, stava mandando avanti (non tanto bene) una linea di vestiti per bambini. Poi, con la futura moglie e il socio architetto Miguel McKelvey, fondano Greendesk, quando l'idea del coworking è ancora agli albori (aprono nel 2008) e infine WeWork. Che oggi è un impero e un brand, c'è WeLive, RISE by We; e WeGrow, appartamenti e palestre e scuole, appunto, e il marchio, “we”, come “noi”, viene messo a frutto. Anche troppo, sostengono alcuni: Neumann infatti ha venduto il logo “we”, di cui era proprietario, alla azienda di cui è maggior azionista e amministratore delegato, cioè praticamente a sé stesso, per 5,9 milioni di dollari. Non è l'unica bizzarria nel comportamento manageriale di Neumann, che recentemente ha venduto, poco prima dell'Ipo, 700 milioni di dollari di azioni dell'azienda – non proprio un segno di fiducia nel prossimo collocamento. Collocamento che ha poi altre peculiarità: il prospetto informativo è finora l'unico nella storia di Wall Street ad avere una dedica (“questo è per il potere di We – più grande di ognuno di noi, ma dentro ciascuno”, parole non di Paulo Coelho ma sempre dell'immaginifico fondatore). Il cui nome ricorre ben 169 volte, rispetto a una media, in un contesto già superegoico come quello dei nuovi ricchi tecnologici, di 25 (il conto lo fa lo strepitoso prof. Scott Galloway, che scrive di finanza come si vorrebbe noi scrivere di tutto). Ma anche le metriche utilizzate vanno oltre i criteri triti e ritriti di Borsa: non si parla di utili ante imposte ma di “utili ante imposte di comunità”, che fa un po' Verdone. Secondo alcuni analisti poi la redditività è tutta da verificare, e l'azienda sarebbe una perfetta divoratrice di cassa; le piazze più importanti sono già tutte presidiate, e nei mercati poveri non pare un modello che possa funzionare (la startup la crei a casa o nel classico garage, anche senza interni in pelle). Insomma, dopo il flop bestiale di Uber, e in attesa di vedere cosa farà Airbnb, tutti si chiedono se vale la pena investire su questa aziendona al suo debutto. Secondo Forbes sarà “Il collocamento più ridicolo del 2019”, perché il business model è vecchio come il cucco, prendere in affitto uffici e riaffittarli, speculando sulla differenza tra il lungo e il breve periodo. Qualcuno sospetta che dietro la modernità scintillante del fondatore e della sua estetica, il modo di fare e di gestire la compagnia sià molto, molto novecentesco.
Michele Masneri


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