
Memorie di uno smartphone che non ha perso la speranza
Dopo essere passato di mano in mano in mano, sei mani in tutto, sono arrivato a lei. Già anziano, un po' stanco, leggermente insoddisfatto, con qualche macchia che appare quasi come una lieve maculatura, nella parte bassa del mio schermo. Sono un iPhone cinque, un cinque esse per essere precisi, e io e lei siamo assolutamente separabili, a volte mi abbandona, mi lascia negli armadi, nei cassetti, alle casse dei supermercati, nelle macchine degli altri, nelle tasche degli altri, nelle vite degli altri. Per lei non sono mai stato suo anche se quando mi prese per la prima volta percepii un sollievo, prima di me aveva avuto un telefono pazzo, molto decisionista, pronto a chiamare e a mandare messaggi a chi voleva lui e le rubriche dei giornalisti sono un po' così, piene anche di sconosciuti, o di contatti ai quali sarebbe meglio non mandare una fila di consonanti senza senso: “ffuygfugfiwgf?”. “Covfefe”, avrebbe scritto qualcuno. Le domande sono inflessioni da usare con parsimonia.
Quando arrivai io, con la mia maculatura, i miei anni e la mia fama, sentii del sollievo, una sommessa contentezza. Prima del telefono pazzo e prima di me aveva avuto un altro iPhone, ma era un cinque ebbasta, caduto per strada in qualche punto non precisato di viale Somalia. Per ritrovarlo ha fatto di tutto, non era di terza, ma di seconda mano, ha ripercorso il quartiere Africano in lungo e in largo, obbligato il suo ragazzo a chiedere ai passanti: “Avete visto un iPhone cinque ebbasta?”, “No, qua è pieno de' zingari, se lo saranno preso, lo usano a pezzi” . E allora lei lo ha obbligato a chiedere a uno zingaro che stazionava al semaforo in cui lei giurava di aver sentito una sensazione di vuoto, ma anche lo zingaro ha risposto in un italiano un po' confuso che sicuramente qualcuno rapidamente se lo era già infilato in tasca, e anche fatto a pezzi (Orrore e raccapriccio, per lei immaginare il suo iPhone cinque ebbasta fatto a pezzi assieme ai ricordi, foto e parole, è di quei tipi ben poco previdenti che non fa mai il backup, nonostante i nostri continui promemoria). Se non fosse stato per quell'incidente lei avrebbe ancora quell'iPhone, e ora ha me, stanco, insoddisfatto, maltrattato iPhone cinque esse. Ho i miei anni, e la mia maculatura e una palla di Natale attaccata dietro, non da lei. Insieme ne abbiamo fatte molte, con tante troppe incomprensioni.
Il suo primo iPhone, per quanto già riciclato, era legato a un'idea di novità, il primo smartphone, insieme erano stati in Turchia, Armenia e in tutto l'est, lo so perché ho sbirciato le sue foto in Google Photo, lui doveva apparirle veloce, nuovo, scattante, cosa che io, sin dall'inizio, non sono mai stato. Il loro rapporto era iniziato con sorpresa, il nostro con delle pretese e quando mi ritrovo accanto allo smartphone del suo ragazzo e lei dice: “Uso il tuo così faccio prima”, lasciando intendere che sono lento, mi vien voglia di spegnermi e non riaccendermi mai più. Lei da me vorrebbe la rapidità, vorrebbe l'immediatezza, che sono cose diverse, ma che io non possiedo. O meglio, sono rapido, a modo mio, di quella rapidità dello stile che, come scriveva Calvino, è soprattutto agilità, è perdersi tra una app e l'altra e poi, con pazienza, ritrovare il filo perduto. Lei però da me a volte vuole l'immediatezza, e io no, non sono immediato, ho bisogno del tempo e so bene che la velocità è data dal risparmio di tempo, misura di cui io, invece, abuso. Vorrei che lei capisse che l'immediatezza ha le sue storture, che non occorre far tutto subito, perché l'immanente storpia il momento. Io sono così e se lì alla fermata dell'autobus, anziché nell'attesa, vive sul mio schermo, tra Moovit e Twitter, e io mi blocco, è inutile che lei insista che con il suo indice inquisitorio continui ad andare in su e in giù. Io sono bloccato e da lì non mi muoverò, fino a quando non avrò ripreso la rapidità, avrò raccolto il filo dei miei pensieri e l'avrò ricondotta, “dopo cento giravolte” scriveva Calvino, al punto esatto in cui si trovava prima.
Le mail al mattino, i gruppi di WhatsApp, poi Telegram, poi di nuovo Moovit, al mattino è un continuo, divento incandescente soprattutto in questa stagione quando Roma è impietosa, calda, sudata. Da qualche mese mi ha rivestito di scotch, nella parte bassa, la mia maculatura così è ancora più visibile. Lo scotch serve a tenere fermo lo schermo che durante una gradevole serata a Venezia, forse un po' troppo calda, si è staccato. Con lo scotch rimane fermo, ma le fotocamere funzionano meno di prima, i microfoni sono flebili, e il caldo si sente ancora di più. Almeno il non sentire è una scusa per troncare le conversazioni. In queste condizioni l'ho anche accompagnata in Israele, lei per precauzione, nel caso io mi rompessi, aveva portato con sé l'altro, il telefono pazzo. Tra Tel Aviv e Gerusalemme è andato tutto bene, a Gaza il solito problema, si sentivano i colpi di un'esercitazione di Hamas in lontananza e lei voleva registrarli subito, in fretta, nell'immediato, io ci ho messo un po' e i colpi sono finiti, ma per il resto, tutto bene, a parte la mia insoddisfazione.
Sono vecchio, lo so. Sono malconcio, lo so. Spesso quando mi estrae da qualche borsetta arriva la domanda, crudele: “Perché non lo cambi?”. Non lo capisco nemmeno io. Le piacciono le mie foto che danno un effetto anni Novanta, le piace lo scotch, la maculatura, le piace la mia mancanza di immediatezza, la distanza che c'è tra la mia lentezza e i social network. Le piace il tempo che abbiamo passato assieme e anche la precarietà, “scatterà o non scatterà”, “aprirà o non aprirà”, “se parto resisterà al caldo di Gerusalemme o al freddo di Mosca?”. Con me tutto è in forse, è sorpresa, io sono l'inaspettato. Sono un reperto, archeologia tecnologica, un oggetto vintage battagliero con tanto scotch e ferite di guerra. Ma tra tante sfide, spesso sono stanco, quando mi mette in carica rimango un po' al buio, e lascio lo schermo nero per riposarmi. Poi il suo insistere, il martellare continuo sul mio tasto centrale mi ricorda che sono uno smartphone, devo fare, mandare, scattare, rispondere, e lo ammetto, una volta sono rimasto al buio per un bel po', per ore, fino a un traumatico riavvio forzato che mi ha costretto a illuminarmi di nuovo, ma senza troppi entusiasmi, emano sempre una luce fioca, delicata. Ma un giorno, forse per stanchezza forse per dispetto, prenderò la decisione di non illuminarmi più, rimarrò al buio come piace a me, rispetterò i miei tempi e non più i suoi. Non vorrò più guardare le sue mail, mandare le sue foto, ho già smesso di condividere le sue posizioni o di ascoltare i suoi podcast, voglio essere un reperto, stare fermo, immobile e non seguirla più. Non mi resta che fare una proposta. Facciamo così, facciamo un patto, tu dammi un po' di tregua, spegnimi, staccami, non usarmi, almeno per un po'. Poi magari mi riaccendi con calma, cosa ne dici? Ma ora, ti prego, lasciami in pace.
Micol Flammini


Il Foglio sportivo - in corpore sano
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