
I robot e la fine del capitalismo
Le cose sono andate diversamente, con l'invenzione dell'automobile in pochi anni i cavalli sono spariti dalla circolazione. Allo stesso modo, anche per la scarsità dei minerali c'è una via d'uscita: la colonizzazione dello spazio e l'apertura di miniere sugli asteroidi. I progressi dell'industria privata dello spazio, come dimostra SpaceX di Elon Musk, sono incredibili e vicino al nostro pianeta ci sono asteroidi con una quantità sterminata di risorse che aspettano solo di essere estratte. Per Bastani c'è una soluzione a tutto, anche nel campo della sanità: la ricerca genetica, con un sostanziale abbattimento dei costi per la cura, ci porterà in un mondo di post scarsità anche per ciò che riguarda la salute. Stesso discorso per il cibo, con la possibilità di produrre carne e cibi sintetici.
Il comunismo di lusso è possibile e alle porte. Nel 1917 era tecnologicamente impossibile e pertanto si era dovuto ripiegare sul socialismo reale, che aveva però ancora il limite della scarsità: “Il problema del socialismo – diceva Margaret Thatcher – è che prima o poi le risorse degli altri finiscono”. Ora invece il progresso consente di “raggiungere il regno della libertà e un mondo al di là della scarsità e del lavoro; un luogo dove esiste la libertà universale di essere chi vogliamo e un'abbondanza così copiosa da sembrare quasi spontanea”, scrive Bastani. A impedire l'arrivo del paradiso in terra è solo il neoliberismo, che tiene tutti intrappolati nella mentalità della scarsità e con il suo modello di austerity impone esclusione e penuria. Per imprimere una svolta serve quindi un cambiamento politico, che non consiste nella presa del Palazzo d'Inverno ma in quella dell'Eurotower (o di qualsiasi altra banca centrale) per stampare moneta a volontà in modo da accelerare gli investimenti e la produttività, eliminando così il problema della scarsità per impulso tipografico.
Il racconto di Bastani non è privo di contraddizioni. Prendiamo l'esempio della disoccupazione tecnologica: da un lato accredita le fobie di Carl Frey e Michael Osborne sulla fine del lavoro, ignorando che quel paradigma non trova alcun supporto empirico. Anzi, viene quotidianamente smentito (i paesi più tecnologicamente avanzati, come Germania e Stati Uniti, sono anche quelli con i più bassi tassi di disoccupazione). Dall'altro, sembra contemporaneamente esorcizzare ed evocare quella prospettiva, perché nel mondo che sogna all'uomo non resterà altro da fare se non combattere la noia.
L'idea di uno “champagne socialism” pieno di “comunisti col Rolex” – inteso come auspicio più che come status – è una fantasia che non ha alcuna concretezza. Ma propone una visione che può insegnare qualcosa alla sinistra, che negli ultimi decenni si è posta in una posizione tecnofobica e reazionaria rispetto al progresso: dalle tasse sui robot, ai limiti alla concorrenza e all'innovazione perché distruggerebbero posti di lavoro meno produttivi. Allo stesso modo indica soluzioni ipertech ai problemi ambientali e climatici rifuggendo dalla decrescita e dalla reazione alla modernità, che invece sono le strade spesso indicate dal movimento ambientalista.
Questo “Comunismo di lusso completamente automatizzato” ha però due grossi problemi di logica interna. In primo luogo, c'è un'idea della storia come di un processo unidirezionale che non può che condurre verso il comunismo. Invece, e purtroppo, la storia è un susseguirsi contraddittorio e imprevedibile di tentativi ed errori. Tra l'altro anche su questo c'è una gigantesca contraddizione. Il primo obiettivo polemico di Bastani è la “fine della storia” profetizzata da Francis Fukuyama con la caduta del muro di Berlino e il trionfo della liberaldemocrazia capitalista, ma paradossalmente sembra dargli ragione nel ritenere ineluttabile sia l'avanzata del capitalismo sia il suo superamento con l'ingresso in un mondo di post scarsità che sancirebbe la “fine dell'economia” (e della storia).
Dal punto di vista filosofico non c'è nulla di nuovo: Alexandre Kojève diceva che Hegel si era sbagliato di un secolo e mezzo, la fine della storia non era Napoleone a Jena ma Stalin a Mosca; Fukuyama diceva che Kojève si era sbagliato di mezzo secolo, la fine della storia non era l'avvento di Stalin ma la caduta del muro di Berlino; Bastani dice che Fukuyama si sbaglia, perché la fine della storia non è il trionfo della liberaldemocrazia ma sarà la “fine dell'economia” comunista… E' la “miseria dello storicismo” che secondo Karl Popper dà alla storia un unico senso di marcia, un determinismo materialista o spiritualista e finalità teleologiche che in realtà non ha.
Secondariamente, l'autore sembra chiedere alla politica di accelerare le tappe: prima ancora che il sistema di mercato arrivi al supposto punto di non ritorno, vorrebbe che le banche centrali diventassero il cuore pulsante del nuovo Gosplan, che il pugno di ferro della regolamentazione si abbattesse sui mercati finanziari, che lo stato riconquistasse il controllo dei mezzi di produzione. Il fatto è che, se ciò accadesse, tutti i benefici ascritti al capitalismo – la crescita della produttività, il progresso tecnologico, la capacità di spingere i confini della scarsità sempre più in là – verrebbero meno, perché essi dipendono proprio dagli “spiriti animali” che la concorrenza e il mercato hanno liberato. Il rischio, insomma, è che i comunisti tech compiano troppo rapidamente il passo dalle teorie marxiane al “che fare?” leniniano. E cioè che ripetano lo stesso errore che Bastani attribuisce alla rivoluzione sovietica: aver voluto affrettare i tempi, cercando di imporre il comunismo prima che ci fossero le condizioni economiche, tecnologiche e materiali per realizzarlo. Possiamo concordare con loro che i frutti del capitalismo siano sugosi e maturi, anche se non crediamo che il vincolo della scarsità potrà mai venire meno perché non esistono confini ai bisogni, alle aspirazioni e ai desideri umani. Ma quanto più questo corrisponde a verità, tanto meno è convincente l'appello a saltare alla conclusione.
Se il capitalismo, grazie alla sua capacità intrinseca di innovare e aumentare la produttività, riuscirà davvero a sconfiggere la scarsità allora davvero ucciderà se stesso, ma sarà anche il suo più grande successo. Anzi, il più grande successo dell'umanità. E' ovviamente un auspicio utopico più che una previsione, ma nell'attesa di scoprire come andrà a finire i comunisti del Ventunesimo secolo potrebbero stringere un patto di ferro coi neoliberisti (noi ci iscriviamo a questa seconda categoria): liberiamo le energie creative del capitalismo e godiamoci i suoi prodotti. Male che vada, ha i secoli contati.
Luciano Capone e Carlo Stagnaro


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