Negro, tu devi pagare

    Nel procurarmi materiale per lavorare a un lungo pezzo commissionatomi da questo giornale, lo scorso 21 gennaio mando questo messaggio whatsapp al mio amico Jean-Jacques: “Ciao, JJ, come va? Sto scrivendo un piccolo saggio intitolato "Nero", e alla fine ovviamente parlo anche di negritudine. Ti va di dirmi due cose su come ti sei sentito, tu, uno dei primi neri, se non proprio il primo, a girare per le strade di Prato? Ti citerei, anche in forma anonima, se preferisci, cioè senza dire né far capire che si tratta di te. Insomma, i pensieri del primo negro che gira tra i bianchi. Il loro stupore, la loro paura, il loro razzismo”. Poche ore dopo ricevo la sua risposta: “Volentieri caro mio Sandro. Appena possibile ti invio qualcosa. Un abbraccio”. Jean-Jacques Ilunga è il mio amico prete, parroco a Prato, nel quartiere di San Paolo. Nato nel 1961 in Congo, a Mwene Ditu, nel Kasai, a pochi km da Mbuji Mayi, la capitale del diamante, è arrivato in Italia, a Roma, nell'aprile 1981, nel giorno di Santa Caterina da Siena, cioè il 29 aprile. Ordinato sacerdote nel 1988, ha conseguito una Laurea in Teologia alla Pontificia Università Gregoriana nel 1991 e una specializzazione in Antropologia nel 1996. Da oltre vent'anni svolge la sua attività pastorale presso la Diocesi di Prato. Ha pubblicato quattro libri: “Accarezzare le mani, Jouvence, 2003"; Come scende la Senna, MMC Edizioni, 2006; Violino senza corde, Jouvence, 2012; Fiori per me che profumo. Gli esorcismi di Padre Ismael, Fandango Libri, 2013. Passano un paio di settimane, io raccolgo tutto il materiale e da lui non arriva niente. Poiché so quanto il lavoro in parrocchia lo tenga occupato, decido di non disturbarlo oltre e scrivo il mio testo senza il suo contributo. Pazienza, mi dico. Qualcosa sapevo, di ciò che mi avrebbe detto, e altro mi incuriosiva, ma insomma, oh, se non aveva potuto non aveva potuto. Scrivo il pezzo, lo consegno e non ci penso più. Ma il giorno prima della pubblicazione, avvenuta sul Foglio di lunedì 11 febbraio, ricevo via mail questa incredibile lettera, che non avrei mai potuto leggere io solo, sarebbe stato un vero delitto. Specie in questi giorni d'estate, nei quali gli africani tornano a disturbare le nostre vacanze con la loro pretesa di essere sbarcati in un porto sicuro dopo un naufragio, di non essere ricondotti a forza nel lager libico dal quale sono appena fuggiti o di non essere confusi con dei cittadini statunitensi che hanno commesso un omicidio. E' certo che dietro a tutti gli africani che ogni giorno, con mille pretesti, vengono strumentalizzati dalla feroce propaganda di regime, vi sia una storia peggiore di quella raccontata dal mio amico Jean-Jacques – ma soprattutto che molto peggiore della sua, purtroppo, sia la storia che hanno davanti.

    Sandro Veronesi

    Mio caro Sandro,

    oggi voglio raccontarti due episodi che non ho mai raccontato a nessuno prima di oggi. Sai che provengo da una delle etnie più esuberanti dell'Africa nera, i così detti “Bantu”. Le etnie vicine alla mia giurano che noi “Bantu” non saremo mai ricchi perché pur avendo oro e diamanti, petrolio e le terre rare, ci manca l'odio per i Bianchi.

    A noi “Bantu”, puoi dire tutto, perché non ci ferisce l'insulto, nemmeno quello più grande, ma la verità. Tra la mia gente fa più male dire ad una persona: “Sei un infelice”. Dire a qualcuno che è infelice fa malissimo perché significa augurargli di restare così per tutta la vita. Vuol dire che quella persona ha fallito, è incapace e si deve vergognare d'essere al di sotto delle sue aspirazioni.

    Non posso però negare che in Africa, in qualche angolo nascosto, ci sia il razzismo dei neri che odiano i bianchi, quel razzismo che consiste nell'insultare l'altro, predicare l'inferiorità culturale, intellettiva, spirituale, morale dell'altro. Ovunque esiste quel razzismo che consiste nel non guardare l'altro e quindi non riconoscerlo, nel trattare una persona con disprezzo, sommergerlo fino a farlo scomparire sotto strati e strati di giudizi negativi.

    Essendo un “mtu”, anche quando sono stato sommerso dal disprezzo, non ho mai dubitato di avere il mio posto nel mondo. La storia della mia famiglia e della mia razza mi ha conferito una dignità e una grandezza che nessuno potrà mai cancellare. Sono iscritto nella genealogia di persone valorose con una millenaria tradizioni di coraggio e carattere. Ti voglio raccontare soprattutto di un colloquio con un signore della “Prato bene”, molto distinto, ricco, colto e razzista che bussava spessissimo alla mia porta, si accomodava e metteva a durissima prova la mia pazienza chiedendomi se non trovavo disgustoso l'odore predominante della pelle nera, cosa provavo alla vista delle scimmiette nello zoo, se non avevo mai provato a schiarirmi la pelle, cosa preferivo tra diventare bianco o ricco?

    Se vuoi ti dirò anche il nome di questa persona, anche se da qualche anno è deceduta – la sua anima riposi in pace. Il caso ha voluto che lo accompagnassi proprio io anche alla sua ultima destinazione.

    Ho viaggiato tantissimo nella mia vita e maturato alcune certezze circa il razzismo. So che il “razzista” non ti sceglie mai a caso come si sceglie a caso un capro espiatorio.