LA LIBERTA' NON RUSSA
Il liberalismo è il futuro” dice Tony Blair, e in un attimo tutto quell'“obsoleto” che Vladimir Putin ci aveva gettato addosso torna a essere leggero e limpido: non prendiamo lezioni di liberalismo dal presidente russo. Direte: che cosa ti aspetti da Tony Blair, forse che sostenga che quello che pensa e applica e predica da venticinque anni è il passato? Certo che no, ma quel che ancora colpisce e affascina è che l'ex premier britannico non è sulla difensiva: ogni questione lui la prende e la lancia in avanti, si guarda alle spalle solo per fare esempi, per ricordare quel che è bene non dimenticare, ma poi gli occhi corrono in là, di corsa, con quel suo gesticolare inconfondibile a scandire ogni tappa perché, dice, “il più grande errore che i progressisti possono fare oggi è restare indietro, rimanere i guardiani dello status quo”. E' cominciato così questo piccolo grande viaggio nel futuro assieme a Tony Blair: con una scossa. Via la solitudine, via il senso di colpa che ha preso i liberali da quando è cominciato il grande ripensamento sullo slancio globalizzatore avviato negli anni Novanta, tutti a rimuginare sugli errori, ognuno a scegliere quello contro cui scagliarsi: collezionisti di sassolini nelle scarpe, così si finisce a correre senza partire mai. La Cool Britannia cantava “don't look back in anger” e si gettava in avanti con le sue rivoluzioni e le sue visioni, un carico di aspettative incentrate sulla promessa più bella che c'è, nella vita, nella politica, nell'amore: “Things can only get better”, andrà tutto bene. Ecco, questo piccolo grande viaggio nel futuro parte da qui, in una mattina luminosa d'estate, con una scrollata, la rabbia che resta là, nel passato, la voglia di costruire un'alternativa a quest'atmosfera lugubre di pessimismi, rancori, schiaffi, scarpe tolte e rimesse e non è cambiato nulla: certi sassolini non si toglieranno mai, ma si corre anche così. Il liberalismo è quel che siamo stati e saremo, dice Blair, è un'idea imprescindibile, assoluta, esatta, che deve essere declinata e governata “con cura”: l'ex premier inglese ripete tante volte “carefully”, va di corsa ma non è sbadato.
Tony Blair è a Milano, è appena rientrato in albergo dopo aver parlato alla Convention internazionale dei Lions, ma arriva da un viaggio in Africa, uno dei tanti: premier laburista del Regno Unito dal 1997 al 2007, è stato fino a due anni fa l'inviato in medio oriente delle Nazioni Unite mentre si costruiva una nuova vita da oratore ben pagato in giro per il mondo che si è rivelata quasi più complicata di quella da primo ministro. Mantenere buoni rapporti con gli ex è sempre difficile, con Blair è stato quasi impossibile, anzi per molti è diventato più rassicurante dargli addosso, come se affossando lui fosse possibile regolare ogni conto con il passato, che fosse la guerra in Iraq o la terza via o il liberalismo. Il blairismo è diventato un affare da nostalgici o feticisti, chi era ragazzo negli anni Novanta gli aggiunge il carico lacrimevole della fanciullezza perduta, chi era più vecchio e non condivideva quel riformismo sfrontato gongola di fronte alla parabola discendente, i giovani di oggi ne parlano come delle cabine telefoniche, con tenerezza retrò. “We don't do Blair”, dicono parafrasando il celebre “we don't do God” di Alastair Campbell, lo spindoctor del blairismo che è appena stato sospeso dal Labour: ha votato per i liberaldemocratici alle elezioni europee. Il disamore si è accumulato, uno strato sopra l'altro, polvere e rabbia: com'è che diceva quello, andrà tutto bene? Ma dai. Di recente Blair ha detto che “il viaggio di un primo ministro è che parti al minimo delle tue capacità e al massimo della tua popolarità e finisci al massimo della tua capacità e al minimo della tua popolarità”, e poi ha riso.
Nella nostra conversazione non c'è traccia di disamore: Blair non va a caccia di colpevoli o vittime, di vincitori o vinti, deve avere le scarpe piene di sassolini ma ha imparato a non sentire male. Conserva lo spirito che aveva nel 2007, al suo ultimo discorso ai Comuni, quello che finiva con “and that is that, the end” ed era un elogio della battaglia politica, del rispetto per la politica, del confronto duro, durissimo (avete presente i Comuni britannici?), ma leale. Rimorsi e rimpianti sono nascosti dietro ai suoi occhi, non si vedono, non li fa vedere, Blair cerca semmai la rampa di lancio di una nuova rivoluzione – “culturale, intellettuale oltre che politica” – smantellando la convinzione che quel che sta accadendo, polarizzazione e radicalizzazione del dibattito, sia inevitabile. Detesta le semplificazioni eccessive, “quel che è difficile è difficile”, dice recuperando una consapevolezza verso la complessità ormai svanita: “I populisti pretendono di avere soluzioni facili a ogni problema. Poi quando iniziano a governare, dove ne hanno la possibilità, si accorgono che certe questioni erano complicate per davvero, esattamente come dicevano quelli che loro hanno combattuto, e sono costretti a fare un passo indietro”. Pensa alla Grecia dove ha vinto il centrodestra di Kyriakos Mitsotakis ma dove anche il predecessore, Alexis Tsipras, aveva dovuto adeguarsi a una regola semplice: la fattibilità di quel che prometti. Ma pensa anche alla Brexit, il suo tormento assoluto, l'unico argomento che, ogni tanto, gli fa rovesciare la testa indietro, sconsolato. Ma non s'arrende, scrolla via le delusioni e i sensi di colpa, i suoi, i nostri, di tutti, scrolla via l'inevitabilità con un gesto della mano: ci sarà quindi questa Brexit? “No, si può ancora evitare, si deve evitare”, dice trascinando la conversazione ancora più in là, un pezzetto avanti, dove ci si interroga su quel che conta: staremo meglio di come stiamo? “Quel che non aiuta le persone, e non c'è modo che la Brexit possa essere in qualche modo d'aiuto agli inglesi, non è inevitabile”.


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