La tv del nuovo millennioha un problema di algoritmo

    Noi siamo anziani, guardiamo la televisione (magari in streaming, ma sempre tv è), discutiamo di quanta parte abbia avuto e abbia nell'affermazione del populismo, la costola del qualunquismo che i social media, per noi sempre più anziani, avrebbero (hanno?) trasformato in protesi e poi organismo nuovo, indipendente. Sbrodoliamo ancora sui postumi, gli effetti essenzialmente secondari, gli scoppi ritardati, le eredità del Biscione. E dimentichiamo YouTube, ne sottovalutiamo l'impatto. Perché lo consideriamo un collega della televisione, e sbagliamo parecchio: YouTube non ha niente della televisione, anche se lo usiamo per recuperarne la storia, anche se molti lo usano per dormire (ci sono youtuber specializzati in video ASMR – Autonomous sensory meridian reponse –, che rilassano lo spettatore fino a farlo addormentare, filmandosi mentre spezzano tavolette di cioccolata).

    Ogni tanto ci chiediamo se uno dei due sostituirà l'altro, se si fonderanno, se avranno dei figli. Per i ragazzi al di sotto dei 28 anni, intanto, la tele è roba di mamma e papà, due adulti annoiati che cercano intrattenimento, mentre per i ragazzi esiste soltanto YouTube (secondo il Pew Research Center, lo usano il 94 per cento degli americani tra i 18 e i 24 anni; in Italia secondo We Are Social è più usato di WhatsApp e Facebook, e non solo dai giovani). Se ne servono per informarsi, cercare, imparare a truccarsi, o a smontare una bici, o ad aggiustare un sifone, o a conquistare una ragazza, per capire meglio “Game of Thrones”, per diventare famosi e, ma questo senza volerlo, per diventare e basta, appartenere a qualcosa. YouTube serve a tutto e, naturalmente, sceglie per noi dandoci l'idea opposta, come succede per qualsiasi mezzo a nostra disposizione che sia regolato da un algoritmo. E noi, sempre anziani, ci preoccupiamo e discutiamo animatamente su come questo restringa i campi, gli interessi, gli orizzonti, e ci dia l'impressione di muoverci in avanti, mentre è soltanto una corsa su una cyclette. E' un'altra preoccupazione imprecisa. Ci allarmiamo anche, e questo è più pertinente, per l'irrilevanza dei controlli che la piattaforma esercita sui contenuti e chi li carica.

    Il modo in cui YouTube ci mette in pericolo, invece, dipende prima di ogni cosa da un tipo di algoritmo molto diverso da quello classico, che procede per prossimità ai gusti degli utenti: il “recommendation algorithm”, che propone contenuti sempre più estremi secondo un meccanismo progressivo che viene definito “rabbit hole effect”. Tu sei lì che guardi Massimo Ranieri che canta “Se bruciasse la città” e il video che si carica dopo è “La mia terribile esperienza come au pair” e poi “Ecco cosa vendono nei supermercati americani” e poi “Sette fotografie inquietanti che nessuno è riuscito a spiegare” e così via, di mistero in follia, di follia in paranoia, di paranoia in cospirazione, di cospirazione in setta. E felici corrono le ore. E da che piangevi cantando con Massimo che “Ma chi l'ha detto ma perché non devo più pensare a te”, cominci ad accarezzare l'ipotesi di iscriverti a una qualche brigata di terrapiattisti militanti, che ti convinceranno che gli incendi sono un'invenzione del Pentagono. La città non brucerà mai, lui sposerà una scema, e tu libererai il mondo dalle bugie dei poteri forti.

    Dal 2012 l'azienda ha cominciato a modificare l'algoritmo in modo che massimizzasse non più le visualizzazioni dei singoli video, bensì il tempo di permanenza degli utenti sulla piattaforma, creando di fatto un generatore di dipendenza. Risultato: nei tre anni successivi, il tempo che gli utenti trascorrevano su YouTube è cresciuto del 50 per cento all'anno, per la felicità di inserzionisti, Google, creator. Tutti contenti. Sicuro?

    Nel 2016, durante l'ultima campagna elettorale presidenziale americana, Zeynep Tufekci del New York Times stava riguardando alcuni video di Trump e s'è accorta che YT gliene riportava molti di suprematisti bianchi e negazionisti dell'Olocausto. Allora, ha cominciato a guardare video di Hillary Clinton e Bernie Sanders per vedere se succedeva la stessa cosa, e in effetti la piattaforma riusciva, in pochi passi, dopo pochi video, a proporle decine di clippini di complottisti, cospirazionisti dell'11 settembre, negazionisti dello sbarco sulla Luna e della morte di Elvis. Lo ha raccontato in un articolo diventato famoso (titolo: “YouTube, il grande radicalizzatore”), dove a un certo punto ha scritto: “I video sullo jogging mi conducevano a quelli su come affrontare una maratona. Quelli sul vegetarismo a quelli sul veganesimo. Per l'algoritmo di YouTube non sei mai abbastanza hardcore: alza continuamente la posta in gioco”.

    Quando Tufekci scrive che, con i suoi due miliardi di utenti iscritti (che caricano più di 500 video al minuto, producendo il traffico di dati più alto al mondo, secondo solo a quello di Google), YouTube potrebbe diventare il più grande radicalizzatore del mondo, ha ragione. E non tanto per quello che sappiamo già: i social media consentono agli estremisti (islamici, no vax, incel, suprematisti bianchi) di contattarsi, scambiarsi informazioni, organizzarsi, fare proselitismo. Il punto è che il meccanismo algoritmico del Tubo trasfigura la ricerca dell'ignoto, il bisogno che abbiamo di trovare risposte, vedere cosa c'è dopo, cosa c'è dietro, e li sobilla fino a trasformarli in manie: ci dà la sensazione di appagarli mentre, invece, li affama. Ci suggerisce continuamente che c'è un'altra porta da aprire, e poiché quelle di prima ci avevano portati nei posti sbagliati, ci fa credere che dobbiamo trovarne sempre di nuove, e che dobbiamo farlo da soli. Ci dice che dobbiamo spingerci oltre, sempre, e che per farlo al meglio dobbiamo far parte di qualcosa di nuovo, affiliarci a sconosciuti. E' il rovescio del contrattualismo, e l'annullamento dell'autolimitarsi per poter vivere in democrazia.