Protezione, il grido degli elettori

Una richiesta che i nazional-populisti accolgono e semplificano fino alla brutalizzazione Ma un'altra risposta è possibile: lo dicono i voti dei sindaci (e la fluidità del consenso)

    In tutto ciò, in filigrana si legge anche un pezzo di ciò che dovrà essere il progetto riformista. Se questo ragionamento lo applichiamo in maniera più ravvicinata all'Italia, non c'è davvero dubbio che la sinistra ha frenato il rischio di un declino che poteva essere irreversibile. La sensazione che si aveva era quella di un aereo che precipitava “in vite”: qualunque cosa si facesse, non faceva altro che accelerare l'avvitamento. Siamo usciti dalla vite, la cloche ha ripreso a governare. E non è una cosa di piccolissimo conto. E' stato giustamente definito un voto di ripartenza, e tuttavia per avere chiaro il senso della ripartenza bisogna leggerlo con attenzione. Il risultato elettorale nel complesso presenta, per usare un eufemismo, alcune notevoli complessità. Tre grandi questioni politiche.

    Ci sono due dati che non dobbiamo dimenticare. Primo dato: questa maggioranza di governo dopo 12 mesi di “disastri politici, economici e sociali”, continua a mantenere il consenso della maggioranza assoluta degli italiani. Anzi, sia pure di poco lo incrementa. Soltanto chi non ha una memoria di quello che è successo in passato in Italia può sottovalutare questo fatto. Un risultato che non ha precedenti nella storia recente italiana. Il 51,3 per cento del paese ha votato per l'attuale maggioranza di governo. Ripeto per non dimenticare. Naturalmente questo 51,3 va poi letto all'interno; e questo è il secondo dato. C'è uno spostamento gigantesco dei voti tra i due firmatari del contratto. Il rapporto di forza è esattamente ribaltato, a conferma della assoluta egemonia leghista nel governo, resa in maniera emblematica dal fatto che il 34,2 per cento ottenuto dalla Lega supera il 32,6 che i Cinque stelle ebbero a marzo 2018, contribuendo in maniera decisiva al superamento con un certo margine della maggioranza assoluta degli elettori. Un vero e proprio spread leghista.

    Questo ci dice una cosa non banale. Il combinato disposto del voto al Pd e del ribaltamento elettorale tra le forze di governo, oltre al risultato del centrodestra, ci consegna la necessità di quella che, una volta, si sarebbe detta una riflessione strategica. Cioè che l'idea di poter proporre al paese una nuova forma di bipolarismo tutto incentrato sulla alternanza Lega-Cinque stelle dopo questo voto è irrimediabilmente in crisi. Eppure se ci si pensa questa era la ragione per cui si era fatto il contratto di governo: l'idea di far collaborare forze radicalmente differenti sulla base di un programma limitato politicamente e temporalmente, con l'obiettivo che una volta passato questo momento ognuna delle due forze sarebbe diventata la guida, il collante o il federatore di due schieramenti nuovamente alternativi. Tutto questo il voto del 26 maggio lo mette in crisi, e cambia drasticamente lo scenario strategico della collaborazione tra Lega e Cinque stelle.

    La verità è che i Cinque stelle non hanno retto la sfida per il governo; anzi quella sfida l'hanno drammaticamente persa. L'elemento principale della loro sconfitta non sta tanto nelle promesse non mantenute, nelle innumerevoli giravolte programmatiche, ma, emblematicamente appunto, sta nella “vicenda Diciotti”. Lì è stato il vero spartiacque per il Movimento 5 stelle. E nel momento in cui hanno votato contro l'autorizzazione a procedere nei confronti del ministro Salvini hanno rotto con un loro presupposto “ideale”. Ricordiamo: uno vale uno; tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. Non è stato certo per garantismo, che è quanto di più lontano dal Movimento 5 stelle; non è stata una della tante capriole su Tav, Tap e tutti gli acronimi immaginabili. E' stato il punto di rottura con un principio fondativo. Proprio quello cioè che tiene insieme i progetti di un movimento, lega quei progetti alle persone. Non c'è punto programmatico, per quanto importante, che possa consentire di travalicare il principio. Ecco perché con quel voto sulla Diciotti il Movimento 5 stelle ha forse salvato il governo, ma ha smarrito l'anima.

    A sua volta il centrodestra tradizionale, quello formato da Lega, Forza Italia a Fratelli d'Italia che si era presentato unito nel maggioritario alle politiche del 2018, sfiora la maggioranza assoluta degli elettori raggiungendo grazie ancora ai leghisti il 49,5 per cento. Cioè con un distacco di quasi 22 punti su un centrosinistra che arriva al 27,6 comprendendo, oltre al Partito democratico, +Europa e altre liste riformiste. Se poi si aggiunge la sinistra radicale con il suo 1,75 per cento si supera di poco il 29. La sostanza è questa. Gran parte di questo centrosinistra è costituito dal Pd che ottiene il 22,7 per cento; il che ha appunto impedito di precipitare e consente di ripartire, ma è egualmente vero che un distacco di 22 punti tra le due coalizioni classiche non si era mai registrato nella pur giovane storia della democrazia dell'alternanza in Italia.

    E la sinistra riformista? La questione del “primum vivere” l'abbiamo vinta. Non era né semplice né scontato. Ma come è noto la frase prosegue con un “deinde philosophari”. Ora viene il momento del “philosophari”. Una sfida da far tremare le vene ai polsi. E qui bisogna leggere un altro fatto che il voto ci ha consegnato. Nella stessa giornata decine di migliaia di persone sono entrate nell'urna e hanno votato alle europee per formazioni di destra e nazional-populiste; e poi alle comunali hanno votato per il centrosinistra. Basta solo guardare i dati. Da Bari a Firenze, da Bergamo a Pesaro, a Modena, solo per citare alcuni esempi. In media nei 28 capoluoghi di provincia nei quali tra il 26 maggio e il 16 giugno si è votato anche per le comunali i sindaci del Pd, o appoggiati dal Pd, hanno ottenuto solo al primo turno il 38 per cento dei voti, rispetto al 25,6 per cento che in quegli stessi comuni e nello stesso giorno abbiamo preso alle europee, ed al 22,7 avuto alle europee come partito su scala nazionale. Si tratta di differenze rispettivamente del 12,4 e del 15,3 per cento. Ciò significa che nella stessa città, nella stessa cabina e nello stesso momento le stesse persone hanno espresso un voto completamente diverso, spesso opposto. Al tempo stesso in quegli stessi 28 capoluoghi il 38 per cento del Pd o del centrosinistra si confronta, sempre al primo turno delle comunali, con il 41,3 per cento del centrodestra unito e con il 10 per cento dei 5 Stelle. Anche questi, dati e distacchi abissalmente diversi rispetto alle europee.

    E' accaduta dunque una cosa molto rara, penso davvero con pochissimi precedenti, in occasione di una consultazione elettorale generale come le europee. La sensazione che molti avevano era che il voto europeo avrebbe finito per trascinare quello amministrativo; e questa era anche, credo, l'illusione di chi governa questo paese, vista la campagna martellante e radicalmente contrapposta tra alleati delle ultime settimane; nel vuoto assoluto di atti di governo. Tutto nella speranza di ottenere l'effetto band wagon, il trascinamento. Non è successo. Dimostrando una straordinaria maturità del corpo elettorale. Di un corpo elettorale “in-for-ma-to”: che cioè nello stesso momento è capace di esprimere voti radicalmente diversi. Tutto questo ci porta a una conclusione, che è poi una sfida. La conferma cioè di un voto in movimento, nel quale non c'è nulla di permanente. Per nessuno, però. Lo abbiamo subìto noi sulla nostra pelle negli anni precedenti; oggi è un messaggio che viene recapitato a chi ci governa. Nulla è acquisito per sempre. Siamo di fronte a una fase di consensi molto fluidi. E mentre nel voto europeo lo scambio principale, e dunque la competizione, avviene tra Lega e Movimento 5 stelle, alle amministrative il passaggio di voti è tra schieramenti a vantaggio del centrosinistra.

    D'altra parte la fluidità del voto appare sempre più una costante delle democrazie europee. In Francia per esempio il doppio turno delle presidenziali ha messo nel 2017 quel paese al riparo dagli effetti collaterali di un risultato che rischiava di portare all'Eliseo la candidata nazional-populista: Marine Le Pen era meno di tre punti dietro rispetto a Emmanuel Macron, il cui movimento En Marche era per giunta appena stato fondato. Tuttavia grazie al ballottaggio Macron ha poi vinto, con il doppio dei voti.