Saga araba di un perdente

L'islamista Morsi non capì che gli egiziani lo avevano votato per non tornare al vecchio regime. Fu cacciato dai suoi generali, finì in disgrazia e in prigione

Rolla Scolari

    L a piazza è quella delle rivoluzione del 25 gennaio. È passato un anno e mezzo dalle manifestazioni che hanno portato alla caduta del dittatore Hosni Mubarak e cambiato il corso della storia dell'Egitto e della regione. La folla riunita quel pomeriggio, migliaia di persone che si riparano dal sole con giornali, bandiere nazionali, tappeti da preghiera, mentre le donne lanciano bottiglie d'acqua dai balconi, aspetta con il fiato sospeso i risultati del primo voto democratico nel paese. È il 24 giugno 2012, le urne si sono chiuse una settimana prima. La voce del presidente della Commissione elettorale si confonde con i rumori della piazza, diffusa dagli smart-phone, dalle radio, dai computer: 50 minuti di straziante discorso, per sfinire nella noia del burocratese qualsiasi pulsione violenta tra fazioni politiche. Poi l'annuncio: il primo presidente democraticamente eletto in Egitto è Mohamed Morsi, uno dei leader dei Fratelli musulmani, collassato lunedì a 67 anni in un'aula di tribunale al Cairo. Era processato, tra gli altri capi d'imputazione, per presunto spionaggio.

    In quell'inizio estate del 2012, la piazza che esplodeva in un boato alla notizia della vittoria di Morsi non era la stessa che un anno e mezzo prima, attraverso le aspirazioni liberali di una generazione di giovani laici, aveva creduto di poter cambiare il corso della storia. Al ballottaggio hanno votato 25 milioni di egiziani, facendo registrare un'affluenza del 52 per cento, la più alta nella storia del paese: 13.230.131 voti per Mohammed Morsi contro 12.347.380 per Ahmed Shafik, ex premier, emanazione dell'ancien régime e simbolo di tutto quello che rigettavano quel giorno in strada non soltanto gli islamisti.

    Un anno dopo, nell'estate del 2013, Morsi veniva cacciato da un imponente movimento di piazza e dal suo ministro della Difesa, poi successore, il generale AbdelFattah al Sisi. Sei anni dopo l'urlo di piazza Tahrir – nello stesso giorno della sua elezione, il 17 giugno per gli amanti del simbolismo – l'ex presidente si è accasciato a terra all'interno di un'aula di tribunale, un attacco cardiaco dicono fonti mediche, dopo aver parlato per cinque minuti dalla gabbia in vetro degli imputati, prima che l'udienza fosse aggiornata. Era già morto all'arrivo in ospedale. Ora Human Rights Watch, Amnesty International e le Nazioni Unite chiedono un'inchiesta indipendente sul decesso. Da anni, la famiglia dell'ex rais, gli attivisti, i sostenitori e associazioni internazionali accusano il governo egiziano per le condizioni di prigionia dell'uomo, l'impedimento alla visita dei familiari, la mancanza di cibo e di medicinali adeguati a una persona anziana con disturbi di salute legati al diabete, alla pressione alta e al fegato.

    Come altri esponenti di quella che fu la leadership della Fratellanza, messa fuori legge e consacrata organizzazione terroristica dal nuovo corso egiziano, Mohamed Morsi era detenuto nella famigerata sezione Scorpione della prigione Tora, al Cairo. Un recente rapporto di Hrw sul penitenziario racconta condizioni di detenzione disumane, celle affollate e senza letti, violenze quotidiane delle guardie nei confronti dei detenuti, mancanza di cibo adeguato, di medicine, assenza di dottori, l'impossibilità di visita estesa a familiari e legali.

    La nuova leadership del Cairo ha negli ultimi anni fatto in modo che il pubblico dimenticasse i destini dei vertici della Fratellanza, imprigionati uno dopo l'altro nel 2013, e dello stesso Morsi, nella vita come nella morte. Nessuna emittente nazionale ha interrotto la programmazione per dare notizia del decesso. Un solo quotidiano, al Masry al Youm, ha dedicato un articolo all'accaduto in prima pagina. Il primo e unico presidente eletto dell'Egitto, l'uomo che -- a prescindere dal giudizio sul suo operato -- ha rappresentato per un breve attimo la speranza di un nuovo corso democratico per la regione, è stato seppellito in fretta e di nascosto alle 5 del mattino in un sobborgo del Cairo. Ai giornalisti è stato negato l'accesso alla cerimonia.

    Il collasso in aula dell'ex presidente fa emergere i dettagli di una repressione politica perfino più pervasiva di quella dell'ex dittatore Mubarak: sono oltre 40mila oggi i prigionieri politici in Egitto secondo i gruppi per i diritti umani, la stampa è stata messa a tacere, il regime non risponde alle accuse di abusi e torture degli oppositori politici, ed è incapace di dare una spiegazione a un alleato internazionale sull'uccisione del giovane ricercatore Giulio Regeni. Ma la vita e la morte di Mohamed Morsi raccontano una storia che trascende i confini dell'Egitto. È la “saga araba” dei governi militari, della sfida islamista e della vendetta autoritaria che continua a ripetersi nel tempo, ci spiega da Beirut, dove insegna all'università americana, Rami G. Khouri. Il nuovo elemento creato dalla parabola di Mohamed Morsi è “un'attiva coalizione di regimi autoritari, brutali e conservatori – quello saudita, quello degli Emirati, lo stesso governo egiziano – che lavorano assieme nel tentativo di sopprimere i cambiamenti democratici e la libertà d'espressione, anche impegnandosi direttamente in conflitti armati in Libia e in Yemen, tentando di mantenere l'esercito al potere in Sudan. Si tratta di una variabile innescata in parte, non totalmente, dalla vittoria elettorale di Morsi in Egitto, che aveva spaventato a morte questi governi”. L'islam politico rappresentato dalla Fratellanza, inteso come ideologia in cui la religione è base della vita politica, è considerato una minaccia alla loro legittimità da monarchie assolute com'è quella saudita.

    Aver cacciato fuori scena un autocrate e poi votare non è abbastanza per ottenere il successo di una rivoluzione, ci dicono quei giorni egiziani del 2012. Il prolungato e pacifico movimento algerino, che da mesi invade le strade del paese e ha ottenuto le dimissioni non soltanto del presidente Abdelaziz Bouteflika, ma anche di altre figure di un antico sistema politico, sociale ed economico, sembra aver interiorizzato la lezione: non precipitarsi alle urne.

    Quando nel tardo 2011 le rivolte arabe erano ancora giovani e impreparate, le elezioni libere erano un sogno proibito che diventava realtà. Le lunghe file ai seggi di cittadini egiziani che nei primi appuntamenti elettorali post-rivoluzionari non sapevano quale sarebbe stato, il giorno dopo, il risultato del voto, erano immagini capaci di commuovere. Furgoncini e microfoni, volantini e nuovi simboli elettorali: la scena il 28 novembre 2011, nelle prime elezioni parlamentari libere in Egitto, era la stessa in tutti i quartieri del Cairo, dal centro alle più remote periferie. Era l'entusiasmo colorato e ingenuo della prima volta. E così l'estate successiva, al voto presidenziale. Eppure, fin da subito era diventato ovvio che le sole forze in grado di prevalere alle urne, in assenza della volontà di compattare le fila dei nuovi movimenti emersi dalla protesta, erano gli antichi padroni della scena politica: i Fratelli musulmani e quello che restava di un regime decapitato ma non cancellato. Alla vigilia del ballottaggio, la rivoluzione era già in ginocchio: la partita si giocava tra ex regime – Shafik – e islamisti – Morsi. “Era un risultato scoraggiante. I candidati più regressivi erano arrivati in testa. In qualsiasi modo si analizzassero i numeri, la rivoluzione aveva mandato tutto a rotoli”, ha scritto Thanassis Cambanis, ricercatore alla Century Foundation che in quegli anni ha seguito tutto dalla piazza, nel suo libro, Once Upon A Revolution: An Egyptian Story. Se i candidati vicini alla rivoluzione si fossero uniti, avrebbero potuto dominare la gara elettorale: “Le persone avevano votato in massa e c'era una maggioranza decisiva per i candidati che esplicitamente sostenevano uno Stato laico”. L'Egitto si trovava invece di fronte al bivio che tutti, nella regione e altrove, temevano dall'inizio di quella rivolta: la scelta tra ritorno all'autoritarismo o l'ignoto islamista. Molti allora, racconta oggi Heba Morayef, egiziana, direttrice per il Medio Oriente e l'Africa del Nord di Amnesty International, scelsero Morsi non perché si identificassero in un'ideologia islamista, ma perché l'ingegnere dagli occhiali fuori moda, le scarpe impolverate e le giacche troppo larghe, un politico fino allora quasi sconosciuto, “la ruota di scorta”, come era soprannominato dopo che la Commissione elettorale aveva squalificato il candidato principe della Fratellanza, l'uomo forte Khairat el Shater, rappresentava l'unico voto possibile contro l'ex regime. E la potenzialità che racchiude l'ignoto. Il resto è il romanzo triste di un'occasione mancata. Il titolo potrebbe essere la dolorosa domanda retorica apparsa su un muro bianco del Cairo, molto dopo i giorni iconici di piazza Tahrir: “Ricordi il domani che non è mai arrivato?”.

    “Sarò il presidente di tutti gli egiziani”, aveva detto il neo-eletto leader nel suo discorso inaugurale pieno di promesse: ripresa economica, riforme politiche e sociali, rafforzamento dell'autorità civile ai danni di quella militare, gonfiatasi nel post-rivoluzione, inclusione, un governo non a maggioranza islamista, un vice presidente donna o cristiano o dei gruppi giovanili. “Sono promesse che manterremo”, ci aveva detto in un inglese impeccabile Yahia Hamed, responsabile della campagna di Morsi, dal quartiere generale del partito della Fratellanza, Libertà e Giustizia, qualche ora dopo il risultato. In quegli uffici si respirava già aria istituzionale. Dalle finestre era ben visibile il vicino edificio del ministero degli Esteri, simbolo delle brutalità delle forze dell'ordine nei confronti dell'unica e credibile opposizione al regime per decenni: la Fratellanza. A una domanda sui futuri rapporti con gli apparati di sicurezza, Hamed aveva tentato il paragone storico: “Citerò Nelson Mandela che disse, quando fu liberato dalla prigione: ‘Sorprendiamoli con la nostra generosità'. Allo stesso modo, dobbiamo sorprenderli con la nostra generosità'”.

    Le promesse non sono state mantenute e il nuovo leader non ha sorpreso per generosità. Al contrario, gli sono bastati pochi mesi per infrangere le speranze di chi ancora credeva che la svolta in Egitto potesse passare attraverso di lui, trascendendo dalle dinamiche non soltanto del partito, ma dell'ordine religioso. “Morsi rappresentava il potenziale per un'autorità civile, e oggi che quella speranza è così lontana, la sua morte ci ricorda il totale fallimento della rivoluzione”, ci ha detto Heba Morayef, che tanto tempo ha passato in questi anni a indagare sugli abusi dello stato di diritto in Egitto. L'ex rais ha perso completamente la sua fiducia e quella di una vasta parte del paese con la stesura della Costituzione del 2012, scritta e firmata da un'Assemblea costituente a maggioranza islamista, da cui erano usciti in protesta i membri di diversi gruppi politici e della minoranza cristiana. Il presidente, accusa oggi Morayef, dimenticò come il suo mandato rappresentasse anche un'ampia fetta della popolazione che l'aveva votato senza essere parte della sua base islamista.

    Nell'autunno 2012, dopo essersi guadagnato il sostegno americano e israeliano per aver mediato un cessate il fuoco a Gaza tra esercito israeliano e islamisti di Hamas – costola della sua Fratellanza --, Morsi impose una dichiarazione che metteva al riparo le proprie azioni da qualsiasi scrutinio giudiziario. Senza fare nulla per limitare realmente il potere di polizia e militari, portando anzi ai vertici dell'esercito una generazione di ufficiali, tra cui Sisi, che poi l'avrebbe detronizzato, il suo mandato fu caratterizzato da detenzioni, interrogatori, abusi di prigionieri tali e quali a quelli che negli anni Novanta e primi Duemila avevano colpito proprio lui e gli altri membri della Fratellanza. E contro il ripetersi dei quali si era scagliato. Certo, il 3 luglio, giorno della deposizione di Morsi da parte dell'esercito, sull'onda di una mobilitazione popolare senza precedenti, non è stato “un lieto fine”, dice oggi Morayef, secondo la quale l'opposizione liberale non può che essere definita “ingenua” per aver creduto che i militari avrebbero consegnato le chiavi del potere ai civili in seguito al golpe.

    “L'istituzione più colpevole in Egitto resta l'esercito: ha ucciso la democrazia, la rivoluzione. Ma i secondi sulla lista sono i Fratelli musulmani, nello specifico la fazione di Morsi: hanno insistito per avere elezioni e non riforme perché a loro non interessava l'Egitto – ci dice oggi Thanassis Cambanis, l'esperto della Century Foundation --. Una volta al potere, la Fratellanza ha agito in maniera intollerante, senza evolvere e aprirsi, come accaduto invece in Tunisia”. Laggiù Ennahda, il gruppo islamista uscito vincitore dal primo voto post-rivoluzionario, anche sull'onda degli eventi egiziani e della cattiva sorte del presidente islamista, ha cambiato corso, aprendo all'inclusione, ai rapporti con i laici, a un governo di unità nazionale.

    “Gli egiziani volevano tutto tranne un presidente dell'ex del regime, per questo hanno votato Morsi, ascoltando le sue promesse. E invece, non appena è sceso in campo, lui ha buttato nella spazzatura tutte le buone intenzioni, preso le distanze da ciò che aveva promesso. Le sue riforme costituzionali contenevano i peggiori incubi per liberali e laici. Ha attraversato tutte le linee rosse e si è comportato come un autocrate, aprendo così la porta ai generali e alla dittatura: non possiamo dare a Morsi la colpa del golpe, quella è dell'esercito. Morsi ha la colpa d'essere stato un leader intollerante che ha innescato sentimenti settari e di estremismo religioso”, sostiene Cambanis. Durante i pochi mesi al potere, il presidente ha fallito anche nel condannare l'aumento di attacchi e atteggiamenti discriminatori nei confronti delle minoranze, come quella cristiana e quella sciita.

    Nella “saga” araba, il successo e il fallimento di Morsi hanno innescato nuove e opposte dinamiche. Se la lezione appresa da Tunisia o Algeria è positiva, altrove la lettura dei fatti è stata diversa. In Turchia, per esempio, il presidente Recep Tayyip Erdogan, che ha definito lunedì Morsi un martire, ha capito che un dittatore per restare al potere deve esercitare forza estrema, come ha dimostrato nella repressione successiva al fallito golpe del 2016. È la stessa lezione interiorizzata dai nuovi dominatori in Egitto, dove oggi ogni oppositore è considerato una minaccia da eliminare. E non è un caso che, benché il governo abbia dichiarato lo stato di allerta immediatamente dopo il collasso di Morsi, nessuno abbia osato scendere in strada. A protestare contro l'opacità delle dinamiche di quella morte. O a portare il lutto per uno dei leader del gruppo nemico pubblico numero uno.