
Jaco pastorius è vivo e suona assieme a noi
Hai voglia a dire che sono questioni dell'anima, e non del supporto analogico o digitale o immateriale. No: avevano a che fare anche con la musica che girava. La musica, che oggi è l'archivio infinito di YouTube destituito di ogni diacronia (scusate, ma avevo voglia di scrivere “destituito di ogni diacronia” da un sacco di tempo, penso non lo dicano più nemmeno all'Università dell'Insubria). Perché il vinile, il “trentatrè”, l'ellepì, aveva questa cosa, prima ancora di iniziare a girare e per molto tempo dopo che lo avevi tolto dal sacro altare: che te lo giravi tra le dita, annusavi la sostanza, la carica elettrostatica accarezzava le labbra, scrutavi in controluce la polvere. Lo avete mai annusato, un iPhone?
Tranquillo, Signor Technics, non ho fatto girare al contrario I'm so tired, anche se la banda puntellata sul bordo del piatto, così ipnotica e ora sorvegliata da un led blu che stabilizza i giri, era fatta apposta per i deejay che negli anni Settanta avevano inventato lo scratch, e rallentavano e rilanciavano la velocità della musica. Per far ballare la gente, all'inizio, ma poi è diventata una nuova acustica. Non ci sarebbe stato l'hip hop, l'ultimo vero mutamento estetico del Novecento, senza questo giradischi. Senza questa icona della nostra evoluzione tecno-acustica. L'ho fatto girare e basta, il “1200”, come lo chiamano oggi i rapper, compreso in velocità 45: chi si ricordava più di possedere Purple Haze di Jimi Hendrix in 45 giri? In religioso silenzio, con un'estasi interrogativa.
Si sente davvero meglio la musica, con questo fuoriclasse della sua categoria, nato per ascolti raffinati nel 1972 ma divenuto presto roba da professionisti, e che dopo essere uscito di produzione, dal 2016 Panasonic (che ora possiede il marchio Technics) ha ricominciato a produrre per un mercato di appassionati? Con tecnologia aggiornata, certo: la rivoluzionaria (allora) trazione diretta è controllata dall'elettronica, ma la stabilità, la meccanica e i materiali sono da sbalordire. E' davvero più caldo il suono intrappolato dal calco analogico dell'onda sonora, rispetto alla campionatura digitale? Abbiamo svolto delle session di ascolto, con mio fratello e mio cognato, con adeguata selezione di birre artigianali e whisky torbati (piacere chiama piacere) e con adeguata pre-selezione di vecchi dischi. (Oh, ecco la parola! Adesso fa fighetto chiamarli vinili, ma si chiamavano dischi e basta: o non avreste mai avuto la discomusic). Se il suono analogico sia migliore in assoluto di quello dei cd, è questione già risolta da altri: non lo è, a meno di possedere un orecchio assoluto. O una sala d'ascolto con un'acustica irreperibile in un normale appartamento, e di disporre di casse che avrebbero senso solo dentro la sala dall'acustica perfetta di cui sopra. La comparazione tra l'una e l'altra edizione di Smoke on the water non ha prodotto differenze sensibili, nemmeno pompando un po' i bassi. Qualche album soffre il graffio o il leggero fruscio della polvere del tempo, non è mai fastidioso, tranne ovvio se si passa alle Sonate di Chopin di Maurizio Pollini (ma in quel caso Deutsche Grammophon non tradisce). Per il resto, quel millesimo di secondo di fffrr che la puntina chirurgica legge è il motore della macchina del tempo, è il godimento dell'effetto vintage, chi può negarlo? E quando esplode la Gibson distorta di Hey Hey my my, la ruggine del rock che ha scavato mille volte quei solchi è un'amica bellissima. Credo che, per molti, il piacere del giradischi stia anche in questo effetto acustico-temporale. Per quanto riguarda il confronto con i benedetti/maledetti mp3 o mp4 che ci portiamo nelle cuffiette inadeguate dell'iPhone o nel bluetooth dell'auto, lo sapete già: tutto il suono che si perde nella compressione elettronica è “un altro inutile delitto contro le nostre vite”, come canterebbe il Maestrone (vinile d'epoca), ma fa parte del patto col diavolo che abbiamo sottoscritto tutti quanti, molto tempo fa. Invece mentre gira il “1200” e arriva il suono morbido del basso di Jaco Pastorius in 8:30 dei Weather Report capisci che lui è sempre vivo, e suona insieme a noi.
Il piacere di questo suono perfetto a rischio di imperfezione va di pari passo con l'ipnosi di guardare girare quell'oggetto nero attorno al suo cuore variopinto, col piacere fisico di doversi alzare a cambiare lato, far ripartire il braccio con la sua leggerezza di titanio e alluminio. Di osservare la bellezza delle copertine di grande formato, che erano forma d'arte a sé, parte del concept più che dell'oggetto. E' il vintage, bellezza. Se esiste una necessità sinestetica superiore, per possedere un giradischi di qualità come questo, a un prezzo da buone tasche borghesi, e per tirar fuori dagli scaffali gli album amati, o di inseguirli nei negozi specializzati, o addirittura di acquistarne di nuovi adesso che la moda è tornata perché ha la sua nicchia di mercato. Se esiste questa necessità, è perché la tecnologia ha rifatto quel giradischi che un tempo per molti era soltanto un sogno, e ce lo consente. Ma resterebbe muto, senza questo strano mix di significati che nascondiamo sotto la parola vintage. Che è un po' una moda, un po' una supercazzola, un po' un gioco con la nostalgia. Ma un po' anche la passione della memoria.
Sono andato a cercare tra i dischi di classica che erano di mio papà. I suoi preferiti che mi ricordo da ragazzo. Le incisioni ad altezza di sublime come Arturo Benedetti Michelangeli che fa l'Imperatore con i Wiener e Carlo Maria Giulini. Ma anche alcune antiche edizioni economiche che ricordo da sempre. Ad esempio uno dei suoi dei preferiti: il sommo David Oistrakh che esegue il Concerto per violino e orchestra di Beethoven accompagnato dall'Orchestra della Radio di Stato dell'Unione Sovietica. Inizio anni Sessanta. Un po' gracchiante, non per colpa del Pcus ma di quante volte mio padre l'ha ascoltato. Aveva acquistato, nei primi anni Ottanta, una collana di dischi Fonit-Cetra che nessuno ricorda più, i “Concerti Martini e Rossi”. Erano registrazioni dei concerti radiofonici che dal 1936 agli anni Cinquanta il “Canale Nazionale” mandava in onda il lunedì sera, con grandi cantanti della lirica, la Callas, la Tebaldi, Gigli. Sponsorizzati dal noto vermuth, che era diventato tutt'uno con la musica come lo Stock 84 lo fu per il calcio. Ecco, in quella permanenza dei suoni dalle radio gracidanti di milioni di italiani, poveri o ricchi, colti o popolani, trasformata nella forma perfetta del vinile, e poi rimasterizzata in cd e ora riattivata nella mia memoria c'è il senso della nostalgia del giradischi. Ma anche qualcosa di più. C'è la memoria del nostro rapporto personale e collettivo con la musica nell'epoca della sua trasmigrabilità tecnica. Del modo in cui faceva e fa parte delle nostre esistenze. Per chi ha qualche anno meno di noi dell'ultima generazione cresciuta con il giradischi può essere una scoperta che va oltre la qualità d'ascolto migliore. Poi, quando dopo l'impercettibile tic partono i 33 secondi di sax solo che aprono la prima traccia, Merceditas, del lato A di Bolivia di Gato Barbieri, e sono assoluti come li ricordavi, e capisci in un istante che lo riconosceresti tra un milione, quel sassofono, allora dici: sì, è perfetto. Prova superata.
Maurizio Crippa


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