
Berlino vuole l'innovazione senza perdere l'identità
Per circa due anni dopo l'annuncio del progetto e l'avvio dei lavori di ristrutturazione, Google deve però fare i conti con le proteste incessanti dei locali. Gli abitanti del quartiere, organizzati in vari gruppi, di cui “Fuck Off Google” rappresenta l'ala d'azione, sono preoccupati che il campus di Kreuzberg possa diventare l'accelerante di un processo di gentrificazione già in atto. Temono un ulteriore innalzamento degli affitti e l'alterazione del prezioso equilibrio multikulti della zona.
Seguono sit-in, manifestazioni, presidi permanenti, lanci di vernice, fino all'occupazione dei locali dell'Umspannwerk per alcune ore, a settembre 2018. Ormai è chiaro, non ci sono più le condizioni perché il campus possa aprire: il progetto destinato a essere un fiore all'occhiello per l'azienda e un regalo – non richiesto – alla città rischia di trasformarsi in un incubo di crisis management permanente. Così alla fine di ottobre Google rinuncia. Lo fa senza uscire sconfitto grazie a un capolavoro di charitable marketing. Anziché mandare tutto a carte quarantotto, l'azienda californiana apre un dialogo con le associazioni più moderate e decide di destinare l'edificio a un grande progetto sociale. L'Umspannwerk diventerà così una “Haus für soziales Engagement”, cioè uno spazio per progetti di pubblica utilità aperto ai ragazzi e alla gente del quartiere. A gestirlo saranno Karuna, un'associazione che aiuta bambini e teenager in difficoltà, e Betterplace, una startup che si occupa di crowdfunding per progetti umanitari ed ecologisti; Google verserà quattordici milioni di euro in cinque anni per coprire l'affitto e le spese. “Il tessuto sociale di Kreuzberg è unico e inestimabile”, ci dice Carolin Silbernagl, la rappresentante di Betterplace che assieme a Jörg Richter di Karuna ha trattato con Google la cessione del quasi-campus. “Si parla tanto di integrazione: qui a Kreuzberg abbiamo un esempio di come le cose possono funzionare. E' un quartiere pieno di difetti, ma in cui la pace sociale è tangibile. Berlino ha l'opportunità di non diventare come Londra o Parigi, può e deve guardare al cambiamento in maniera più responsabile”.
Per capire le dimensioni effettive di questo cambiamento e il potenziale di Berlino basta leggere i numeri dell'ultimo “Start-up-Barometer Deutschland”, il “barometro” annuale stilato da Ernst & Young che analizza lo stato dell'arte del settore delle startup e del capitalismo di ventura in Germania. Nel 2018, dice l'ultimo report pubblicato a gennaio, le startup berlinesi hanno chiuso 227 round di finanziamento per un totale di circa 2 miliardi e 600 milioni di euro (in Italia, nello stesso periodo, sono stati raccolti 522 milioni, un volume che comprende anche le startup con sede all'estero ma fondate da italiani). La cifra rappresenta più della metà dei finanziamenti della Repubblica Federale e piazza Berlino al secondo posto nella classifica degli hub europei più attivi dopo l'inarrivabile Londra (5 miliardi) e poco sopra Parigi (circa 2,5 miliardi). A differenza delle omologhe francese e britannica, però, la capitale tedesca rimane “poor but techie”, per parafrasare il famoso slogan “poor but sexy” coniato dall'ex-sindaco berlinese Klaus Wowereit nel 2003. Secondo i dati dell'Istituto di Ricerca Economica di Colonia, infatti, Berlino è l'unica capitale in Europa che influisce negativamente (-0,2 per cento) sul pil della nazione. Gli investimenti contribuiscono all'economia della capitale, ma non abbastanza da sopperire alle sue disfunzioni ataviche che affondano le proprie radici nella divisione storica della città e che si concretizzano in progetti fallimentari e iper costosi come l'aeroporto di Berlino Brandeburgo. Il nuovo scalo intitolato al cancelliere Willy Brandt doveva essere inaugurato nel 2012 e costare 2,2 miliardi di euro: dopo mille rinvii dovuti a gravi errori di costruzione aprirà nel 2021, o almeno si spera. Di miliardi ne costerà più di 7, incluse le espansioni già previste entro il 2030. Un altro esempio su tutti: la sede del BND, la NSA tedesca, inaugurata a febbraio con otto anni di ritardo e costata più di un miliardo di euro.
Ma in fondo anche questa idiosincrasia per l'efficienza teutonica è un'altra contraddizione che contribuisce al vibe che rende unica Berlino, una città che già lo storico dell'arte Karl Scheffler, nel 1910, descriveva come “destinata a divenire e mai a essere”. E in fondo le inefficienze amministrative, le lungaggini e il ritardo con cui si è affermata come polo di attrazione sulla scena globale hanno un risvolto positivo: offrono a Berlino la possibilità di osservare lo sviluppo avanzato di città già iper gentrificate come Londra o Parigi per imparare dai loro errori.
La Hauptstadt ha ancora l'opportunità di seguire una terza via, rimanendo una città in cui il cambiamento non viene tanto respinto acriticamente, quanto incanalato in un alveo capace di contenere le esondazioni che altrove hanno compromesso il tessuto sociale e favorito nuove forme acute di diseguaglianza economica, cioè quelle che l'urbanista Richard Florida individua come cause della “new urban crisis” nel suo omonimo libro del 2017. Un modello nuovo, che non si arrenda alla dicotomia fra turbocapitalismo e luddismo, ma che sappia sintetizzare contrasti e conflitti in maniera equa.
Un'altra testimonianza tangibile dell'efficacia della coesione sociale dei berlinesi contro gli interessi speculativi si era già registrata nel maggio del 2014 con il referendum consultivo sulla destinazione d'uso dell'ex aeroporto di Tempelhof. Allora il 64,3 per cento dei cittadini decise di bloccare qualsiasi tentativo di sviluppo edilizio (che pure sarebbe stato solo parziale e avrebbe previsto anche alloggi popolari) e di continuare a concedersi il lusso di un megaparco open-space da 300 ettari nel cuore della capitale, con orti pubblici, spazi per grigliate, grandi piste per scorrazzare con pattini, skateboard e biciclette e un'area per eventi che ora una volta l'anno ospita pure una tappa dell'ABB FIA Formula E Championship, la Formula 1 delle auto elettriche. Nel 2016, invece, fu il turno di Airbnb, colpita da un provvedimento volto a limitare il dilagare degli affitti turistici (più profittevoli per i proprietari) che limitavano l'offerta di appartamenti sul mercato degli affitti a lungo termine.
In politica a cavalcare l'onda lunga di queste campagne è soprattutto il partito Bündis 90 / Die Grünen, che in occasione delle europee del 26 maggio scorso ha vinto in città con il 28,1 per cento. I Verdi, che a Berlino governano in coalizione con SPD e Die Linke, hanno conquistato 8 quartieri su 12, con l'eccezione dei distretti popolari di Lichtenberg e Marzahn dove ha prevalso la sinistra, e di Reinickendorf e Spandau, feudo della CDU.
La prossima battaglia che si staglia all'orizzonte è quella di “Deutsche Wohnen & Co. Enteignen”, un movimento che chiede l'espropriazione di circa 200.000 appartamenti di proprietà di grandi gruppi immobiliari (come Deutsche Wohnen, appunto) che a Berlino ne posseggano più di 3.000. Lo scopo è imporre una battuta d'arresto alla “Mietenwahnsinn”, la follia degli affitti. Benché a Berlino affittare casa costi in media ancora molto meno delle solite Londra o Parigi, nell'ultimo decennio i prezzi al metro quadro sono schizzati, con casi estremi di affitti perfino triplicati in pochi mesi con la scusa delle ristrutturazioni forzate degli stabili.
Per i critici l'esproprio non ha alcun senso, perché costerebbe tantissimo (le stime oscillano dai 14 ai 30 miliardi) e non creerebbe nuovi alloggi. Gli attivisti stanno comunque raccogliendo le firme per un referendum al fine di chiedere l'applicazione (mai avvenuta prima d'ora) dell'articolo 15 della Legge Fondamentale tedesca, che prevede la possibilità di “collettivizzare” ai “fini di socializzazione il suolo, le ricchezze naturali e i mezzi di produzione” (sic.). E' un esperimento post socialista condito da slogan degni di un comizio di Democrazia Proletaria, che incarna perfettamente un certo geist anarcoide di Berlino. L'esproprio sarà probabilmente inapplicabile, ma ha già sortito l'effetto di smuovere il dibattito.
Queste battaglie mostrano il modo assolutamente nuovo con cui Berlino sta tentando di trovare la sua strada come hub tecnologico europeo. Questa strada prevede a volte di rispondere a muso duro ai giganti del settore, senza però rinunciare a progresso e ricchezza, come temono i conservatori della CDU e i liberali di FDP.
Google, per dire, da Berlino non se ne è mica andata. Ha una scintillante sede nel cuore borghese di Mitte di cui va molto fiera. E' istituzionale ma non troppo e si trova a pochi passi dalla centralissima Isola dei Musei, una zona turistica meno hip di Kreuzberg che però non corre alcun rischio di ulteriore gentrificazione. Le pareti sono bianchissime, salvo per alcune illustrazioni graffitare e un po' di tape art, mentre le sale riunioni hanno nomi tipo “Berghain” (il tempio berlinese della tecno) o “99 Luftballons”. Google ha inoltre acquisito e sta già ristrutturando il Johannishof, un palazzo di uffici a circa 300 metri di distanza dalla sede attuale.
Del resto Google e tutte le altre grandi del tech come Amazon, Microsoft, Facebook e Uber, che qui una sede già ce l'hanno tutte, hanno bisogno di Berlino forse più di quanto Berlino abbia bisogno di loro. Le condizioni storiche e geografiche, il costo della vita tutto sommato ancora mediamente sostenibile, lo spirito della città, la cultura dei club e del divertimento notturno, la qualità dell'istruzione, la facilità di ottenere un visto e naturalmente le opportunità di impiego nel settore tecnologico hanno creato un ecosistema autoalimentante che attira quei talenti di cui i colossi del tech sono sempre alla ricerca. Ingegneri, sviluppatori, project manager, professionisti creativi si spostano a Berlino perché qui si può ancora “vivere senza respirare tecnologia tutto il dannato giorno e senza l'ansia di arrivare a fine mese”, come mi racconta Morgan Brown, ex programmatore per Apple a Cupertino che ha deciso di trasferirsi in Germania perché non ne poteva più del “grind” della Silicon Valley. Prima ha provato a prendere un secondo master a Dresda, ma poi, annoiato dall'ambito accademico, ha deciso di mettersi a fare lo sviluppatore web freelance. “Lavoro da casa in remoto, guadagno meno di quanto guadagnassi alla Apple, ma qua è comunque tantissimo”, mi spiega quando lo incontro a Kreuzberg, in una caffetteria un po' hipster sul canale, non troppo lontano dal quasi campus.
La sua storia è quella di molti giovani professionisti che a Berlino hanno trovato un equilibrio che, per loro, vale più dell'arrivismo siliconvalligiano, o delle “exit” milionarie. “Ho una bella casa, e un work-life balance che non avrei mai sognato. Continuo a fare un lavoro che mi piace molto, ma alle mie regole, e posso dedicarmi a miei progetti e ad altri interessi. Nella vita non ci sono solo il codice e i computer”.
Andrea Nepori


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