La crisi in silicon valley ecco i profeti del no social

    Parrebbe secoli fa, ma solo nel 2017 Mark Zuckerberg era dato seriamente come possibile e auspicabile candidato alla Casa Bianca, e il suo faccione era sinonimo di simpatie algoritmiche globali garantite dalla provenienza dop, la Silicon Valley dei progressisti brufolosi. Ci si indignava invece molto, nella terra degli inventori, per l'elezione del trucido Trump alla Casa Bianca: il cofondatore di LinkedIn, Reid Hoffman, in campagna elettorale offrì cinque milioni di dollari in beneficenza se Trump si fosse deciso a presentare la sua documentazione fiscale. Trump è “la cosa peggiore mai successa nella mia vita” disse Sam Altman, presidente del giga incubatore Y Combinator. Tanti minacciarono di emigrare, tipo Umberto Eco con Berlusconi. Nessuno naturalmente lo fece, ma intanto, in tre anni, Facebook accantona miliardi di dollari in vista di una possibile condanna per i furti di privacy e le continue emorragie di dati, e la sua reputazione è a livelli delinquenziali (e la Silicon Valley ormai percepita come luogo di carogne). I profeti del “techlash”, cioè della rivolta contro la tecnologia che la Valle incarna, spopolano. Qualcuno l'aveva detto.

    La star del momento è Shoshana Zuboff, la professoressa di Harvard che ha pubblicato “The Age of Surveillance Capitalism”, il capitalismo di sorveglianza, destinato a diventare il libro sacro di questi anni: noi cerchiamo meglio grazie a Google e a tutte le altre diavolerie, sostiene Zuboff. In cambio le diavolerie cercano noi. “Una delle bugie che ci sono state inculcate è che l'uso dei dati personali sia una conseguenza inevitabile delle tecnologie di oggi”. Prendere o lasciare. Ma non è vero. Questo tipo di tecnologia prende “la nostra esperienza umana e la trasforma in dati in grado di predire comportamenti umani, che vengono venduti su un mercato completamente nuovo”. Questo sistema, partito dal digitale, “sta contaminando tutto, dalla sanità alle assicurazioni alle automobili”. “Ci chiamano users, ma sono loro stanno utilizzando noi. E tutto questo a nostra insaputa”. La professoressa di Harvard ribalta anche il famoso detto “se non paghi il prodotto, sei tu il prodotto”: non siamo prodotti, dice Zuboff, siamo le carcasse divorate e spogliate.

    Zuboff è un po' la Piketty degli anni 2020. La sua opera forse deve qualcosa a Tim Wu, giurista, professore alla facoltà di Legge della Columbia. Il suo libro, “The Attention Merchants: The Epic Struggle to Get Inside Our Heads”, è stato un bestseller mondiale nel 2017. Il tema, lo stesso: la trasformazione dei nostri dati personali in commodity. “Certo, si possono far soldi anche in maniere più tradizionali”, ha scritto recentemente sul New York Times con cui collabora. “Ma le compagnie più ricche del pianeta generano ricchezza piazzando il maggior numero di schermi, oggetti, marchingegni nelle nostre case, il più vicino possibile ai nostri corpi per tracciarci meglio” (Alexa, hai sentito?). “L'accumulo di dati crea un vantaggio competitivo, e si possono far soldi mettendo insieme tutto ciò che si conosce riguardo un individuo. E' un business model inventato da Facebook, Google e dall'industria della pubblicità online, e poi vi si è convertita anche Amazon, e poi compagnie dei telefoni e tv. E se non si farà nulla, è presumibile che questo tipo di sorveglianza gratuita verrà inserita in qualunque tipo di servizio”. Nel libro successivo, “The Curse of Bigness: Antitrust in the New Gilded Age”, Tim Wu sostiene che i monopoli tecnologici vadano spezzati.

    Come in ogni setta, i critici più scatenati sono i pentiti, gli spretati. Ecco dunque che la narrativa anti Zuckerberg e anti Valle ha il suo apice in Roger McNamee, già finanziatore del giovane Zuck. McNamee è stato quello che nel 2006 sconsigliò di vendere la giovane compagnia a Yahoo perché credeva che avesse ancora potenziale di crescita. Oggi ha sfornato un librone intitolato “Zucked. Come aprire gli occhi sulla catastrofe Facebook”, in cui dice tutto il male possibile dell'azienda californiana, in particolare che per colpa sua “si sono incoraggiate prese di posizione che un tempo le persone tenevano per sé, tenute a bada dalla pressione sociale”. Facebook ha insomma liberato gli istinti peggiori in noi: l'azienda andrebbe spezzettata e rieducata, ma pare impossibile perché tende al monopolio, come tutte le compagnie sorte nell'ultima ondata di “unicorni” della Silicon Valley, ed è un mutamento generazionale. “La cultura della Valle stava cambiando, passando dal libertarianismo hippy di Steve Jobs a un'altra cosa: costruire monopoli, fare disruption e dominare”, scrive McNamee. “Non gliene frega più niente delle regole”.

    “Ho cominciato a sentirmi molto a disagio e nel 2009 sono uscito dalla compagnia”, ha detto McNamee, che aveva messo in guardia i vertici di Facebook (non solo Zuckerberg ma anche la potentissima capa operativa Sheryl Sandberg) dopo l'elezione di Trump e la Brexit, sugli effetti e le responsabilità di Facebook. “Dovevano fare come fece la Johnson & Johnson quando un pazzo nel 1982 mise il cianuro nelle pillole del farmaco Tylenol che l'azienda commercializzava. Le ritirarono tutte. E non lo rimisero sul mercato fin quando non furono sicuri che era pulito”. Ma Facebook “non l'ha fatto”. I social media, ha detto McNamee, si comportano come l'industria chimica 30 anni fa. “Si versavano gli scarti nelle fognature, ed era ok per l'epoca. Ma a un certo punto qualcuno si è alzato e ha detto: hey, questo non va bene. Le esternalità negative del vostro settore sono un problema vostro. Adesso pulite voi”. Bisogna vedere chi si alzerà adesso col mocio.

    Il trionfo del “techlash” pratico (multe, inchieste, pubblica gogna) è scoppiato nel 2018 con il caso Cambridge Analytica e con le varie fuoriuscite di dati da Facebook. Anche prima c'erano i pentiti, ma se li erano filati in pochi. Antonio García Martínez, ex startupper, ex dipendente di Facebook, ha raccontato la vita agra della Silicon Valley in un librone intitolato “Chaos Monkeys: Obscene Fortune and Random Failure in Silicon Valley”.