LA GOGNA SPIEGATA CON LOLITA

    Tutto quello che riguarda l'online è sempre colpa di qualcun altro, e se mi sono messa a perdere tempo e fantasticare inventando un social network che non esiste, come se non bastassero quelli che abbiamo già, la colpa è di uno che i sociali network li disprezza, cioè Jonathan Franzen: “Un tempo non importava se Raskol'nikov e Lily Bart fossero personaggi piacevoli, ma oggi la questione del ‘mi piace', che privilegia implicitamente i sentimenti personali del recensore, è diventata un elemento chiave del giudizio critico. E la narrativa letteraria assomiglia sempre di più alla saggistica”, constata nel saggio di apertura della raccolta La fine della fine della terra (Einaudi, traduzione di Silvia Pareschi). Non so se le critiche ai romanzi in base alla piacevolezza dei protagonisti siano sempre esistite o siano davvero frutto della popolarità di cui gode oggi chi è abile a esprimere un giudizio velocissimo e il più possibile ridotto all'osso su qualsiasi argomento, personaggio o persona, però il problema c'è, e assume nella contemporaneità sembianze specifiche che lo rendono più chiaro, più visibile. Io poi ho questo vizio di prendere Franzen sul serio, esprimendo così quella gratitudine che provo verso chi riesce a farmi sembrare interessante la materia che meno mi interesserebbe al mondo – è sempre colpa sua, per esempio, se ho preso a leggere memoir di scrittrici che dall'allevamento dei rapaci deducono il senso della vita, e li sottolineo pure, perderò il sonno pur di sapere cosa hanno di esistenziale quei benedetti volatili e siccome non ho nessuna intenzione di avvicinarne uno lo scopro all'antica, sui libri, deliziosi parallelepipedi non commentabili, nel senso che chiunque ha un tiramento e lo scambia per un'opinione non si sente in dovere di commentarli subito, a piè di pagina. O forse sì, forse non siamo più al riparo nemmeno off line, e quindi torniamo al social network franzeniano, quello in cui personaggi immortali di romanzi immortali appaiono in tutta la loro radiosa impresentabilità consegnandosi al giudizio della rete che severa decreterà: pollice su, pollice giù, cuoricione, esecrazione sociale, ah come gliele ha cantate, ehi tu ma non ti vergogni, screenshot incriminato e incriminante del periodare stigmatizzato, rimbalzo da un social all'altro e pure nelle chat private. Franzen liquida la questione in poche righe, giustamente impegnato in quell'attività seria che è la difesa della sua idea di letteratura, ma se una cosa cade dalla sua tasca a me viene voglia di raccoglierla, e partendo da quel breve inciso polemico mi sono sentita autorizzata a sognare. Piacerebbe a Jorge Luis Borges o ad Alberto Manguel un social network dei personaggi letterari, come un tempo si usavano gli atlanti o i dizionari? In fondo i social non sono pranzi di gala, sono luoghi del massacro, e se la letteratura, pervasa dalla smania di essere corretta e civile e pollice in su, rischia di annoiarci, forse è altrove che dobbiamo rifugiarci per riversare i nostri tumulti quotidiani.

    Immaginiamo dunque di connetterci a questo paradiso dei lettori che cercano scossoni, emozioni forti. Il primo che incontriamo è Humbert Humbert, il quale usando un generico voi e chissà chi subtuittando, così si esprime di getto: “Potete sempre contare su un assassino per una prosa ornata”. E' l'eterno ritorno del pensiero orribile, il sospetto che un delinquente possa aver scritto un capolavoro, un'opera che ci commuove e strazia e persino ci migliora, e, anziché trovarcelo fra le pagine di Lolita, quel brutto pensiero è lì, sotto gli occhi di tutti, decontestualizzato e brutale. Cosa ne facciamo? Negli ultimi anni i social, quelli veri, si sono configurati come enormi contenitori di acclamanti Barabba che chiedevano la testa, di volta in volta, di molestatori, disturbatori della quiete pubblica, portatori di pensieri complessi o anche solo di pensieri ubriachi; ogni settimana c'è qualcuno che, reo di un comportamento non ortodosso, troppo intelligente oppure troppo scemo, viene messo all'indice: ecco che da un momento all'altro non merita più di girare film, condurre programmi, scrivere libri, pubblicare articoli su un giornale. Non riesco a immaginare niente di più triste di biblioteche, emeroteche e videoteche popolate da persone perbene con cui vado d'accordo, ma Franzen, sempre lui, non mi aiuta a esprimere la mia desolata e isolata disperazione: in una recente intervista ha confessato anzi di avvertire un crescente disagio di fronte alle opere di Caravaggio, non riuscendo più a separare il piacere estetico dalla consapevolezza etica che quell'uomo, autore di capolavori, ne avesse ucciso un altro. Riportando il dibattito sulla fruizione dell'arte a un tragico anno zero, l'amato Franzen mi arrecava un significativo dispiacere, ma quantomeno poneva il problema a partire da un assassinio; in questi anni ho visto gogne mediatiche scatenarsi per molto meno, chiedere che venissero sospesi rei confessi di notti di sesso non entusiasmanti (una colpa per la quale sarei anch'io favorevole alla galera, a patto che poi non ci si lagni dell'affollamento delle carceri) o portatori di opinioni espresse con malagrazia (idem).