
Un populismo tinto di verde
Opporsi a industria, infrastrutture e a ogni genere di sviluppo tecnologico per assecondare i comitati No Tav, No Tap, No inceneritori… Illusioni e fallimenti del M5s al governo
La mistificazione più grave è probabilmente il richiamo al concetto di “uguaglianza”. Se dovessimo proporre ora il modello “tutto rinnovabili” ai paesi più poveri e assolati della terra probabilmente ci risponderebbero come il keniota James Shiwati dell'Inter Region Economic Network nel documentario “The Great Global Warming Swindle” (“La grande truffa del cambiamento climatico”, 2007). “I paesi ricchi possono anche permettersi di avventurarsi in sperimentazioni di lusso con altre forme di energia, ma noi non siamo ancora a questi livelli di sopravvivenza”.
“Non capisco – continua il keniota – come un pannello solare potrebbe alimentare una fabbrica di acciaio o una linea ferroviaria. Potrebbe alimentare, al limite, una piccola radio a transistor”. Ovvero sarebbe una condanna al sottosviluppo per i paesi in via di sviluppo. Applicata ai paesi occidentali sarebbe invece una regressione economica assicurata e auto-inflitta.
La protesta “green” si nutre di catastrofismo (“siamo in emergenza”) ma non offre soluzioni praticabili (“fate qualcosa”). Lancia allarmi e richieste disperate di intervento ai governi che, a loro volta, assecondano il richiamo. Secondo Umberto Minopoli, manager, saggista e presidente della Associazione nucleare italiana, il rischio è proprio che i leader politici si lascino incantare dalle sirene ambientaliste senza portare risultati. “Che i governi si nascondano dietro ai bambini per denunciare lo stato del mondo è paradossale e ipocrita – dice Minopoli – E' paradossale perché sono trent'anni che si fa questa denuncia e se davvero siamo in uno stallo come dice il paradigma degli ambientalisti da fine del mondo, con le emissioni carbonifere che non diminuiscono e l'allarmismo che cresce, è perché si è sempre detto che ‘si dovrebbe fare qualcosa' anziché intraprendere azioni concrete. E' ipocrita che i governi si accodino alla protesta – dice Minopoli – non solo perché era loro responsabilità agire ma soprattutto perché dicono alla popolazione di cambiare le abitudini di consumo, imponendo un cambiamento drastico e insostenibile. Sono i nostri comportamenti l'oggetto della rivolta. Dovremmo proporre un'evoluzione energetica graduale che non si identifica con un modello penalizzante dei modi di vita della persone”.
Il popolo però non è incline a modificare i suoi comportamenti. L'inverno scorso il movimento dei “gilet gialli” in Francia è nato dai pendolari delle periferie in protesta contro il rincaro del carburante usato per finanziare iniziative di mobilità sostenibile e incontrare gli obiettivi dell'accordo di Parigi sul clima. I “gilet” hanno costretto il presidente francese Emmanuel Macron a rinunciare al provvedimento eco-friendly quando la protesta è arrivata a chiedere le sue dimissioni. Non sembra ci sia consapevolezza da parte dei politici della ritrosia della classe media a vedersi sottrarre porzioni di reddito per destinarle a rivoluzionare le proprie abitudini di consumo energetico come imposte dai governi. Tuttavia la tematica ambientalista che dagli anni Settanta è appannaggio della sinistra post comunista è diventata pensiero egemone. Ha affascinato non solo i liberali come Macron ma, ultimamente, anche la destra repubblicana americana e quella conservatrice inglese. Negli Stati Uniti il repubblicano Carlos Curbelo della Florida ha proposto di introdurre una tassa sulle emissioni di anidride carbonica, in controtendenza palese rispetto alla ostilità decennale del suo partito e del presidente Donald Trump verso qualsiasi misura volta ad affrontare il cambiamento climatico soprattutto se riduce la competitività delle imprese. Nel Regno Unito il Partito conservatore, attraverso il cancelliere dello Scacchiere Phillip Hammond, ha appena accolto la proposta del gruppo di pressione Committee on Climate Change di non installare più fornelli a gas nelle nuove abitazioni a cominciare dal 2025 dopo anni di proteste ambientaliste contro l'estrazione in Galles di gas naturale dalle rocce profonde, il “fracking”. In Europa l'attivismo di Greta ha ricevuto plausi per esempio dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Per le elezioni europee di maggio i segnali di una “onda verde” sono però flebili. Nessun partito verde è rimasto stabilmente sopra al 20 per cento nei sondaggi. C'è però, anche qui, la cannibalizzazione del tema. In Germania, dove i Grünen hanno intercettato i voti della Spd alla elezioni in Baviera di ottobre, l'estrema destra da tempo cavalca l'estremismo ambientalista opponendosi alla costruzione di infrastrutture e impianti energetici. Per le europee sta emergendo l'ambizione anche delle sinistre a vestirsi di verde nella speranza di risollevarsi da consensi ai minimi.
Mark Blyth, professore di politica alla Brown University, dice che “la sinistra mainstream è morta o in declino terminale” nel continente. Blyth considera l'Italia “un esempio calzante” perché “l'economia non è cresciuta in vent'anni, i salari sono rimasti stagnanti a lungo, e la sinistra mainstream è considerata responsabile di politiche di privatizzazione e deregolamentazione dalle quali gli italiani si sentono danneggiati. Il disincanto ha radici reali”, dice. “C'è anche uno spostamento generazionale a causa della crisi dell'Eurozona. I loro consensi elettorali a lungo termine non si riprenderanno mai a meno che non saltino sulle giovani generazioni che attraggono i verdi”.
Il segretario del Partito democratico, Nicola Zingaretti, sembra volere catturare l'elettorato giovane amico di Greta al punto che non appena eletto alle primarie ha promosso un “New deal verde” – piattaforma coniata dall'astro nascente della nuova sinistra americana anti Trump Alexandria Ocasio-Cortez – per lo “sviluppo sostenibile” in una “società più giusta”. Obiettivo: incentivare la mobilità elettrica, l'auto produzione di energia da rinnovabili e un piano di manutenzione del territorio. Un'offerta non distante da quella del Movimento 5 stelle delle origini di cui il Pd di Zingaretti vorrebbe raccogliere gli elettori oramai delusi da quasi dieci mesi di governo. Che sia una scommessa vincente è da vedere. La quota di popolazione italiana che considerava importanti le questioni ambientali era dell'11,5 per cento nel 1989 e dopo la crisi del 2008 è scesa al 2,4 per cento. La tattica del M5s è stata catastrofica, replicarla avrebbe probabilmente lo stesso esito. La propaganda ambientalista del Movimento – la cui quinta stella simboleggia proprio l'ambiente – si è tradotta in una utopia decrescitista che ha catturato quella preoccupazione per l'ambiente incarnata dagli oppositori a industria, infrastrutture e a ogni genere di sviluppo tecnologico per assecondare i comitati No Tav, No Tap, No Ilva, No inceneritori e altri. Una volta al governo – con il controllo del ministero dello Sviluppo economico, delle Infrastrutture e Trasporti, e dell'Ambiente – il M5s ha deluso le aspettative nell'impossibilità di fermare le opere o di arrestare le industrie come promesso. L'esempio più chiaro è a Taranto, con il ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, che in agosto ha consegnato l'acciaieria Ilva al colosso europeo Arcelor Mittal consentendo un aumento della produzione, e quindi delle emissioni, senza imporre correttivi immediati all'inquinamento. A Taranto il M5s aveva ottenuto circa il 50 per cento dei consensi alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 con la promessa di chiudere l'Ilva anche se in realtà non ci sono mai state, negli anni, azioni concrete da parte di parlamentari ed esponenti locali per farlo davvero. Un anno dopo, in città, di Cinque stelle non ne vogliono sentire parlare. “Hanno fatto come gli altri, anzi peggio. Ci sentiamo traditi, penso che voterò Lega la prossima volta”, dice Stefano, abitante del quartiere Tamburi, in prossimità del siderurgico, quando a marzo un aumento delle emissioni inquinanti rilevate dalle centraline interne allo stabilimento nei primi due mesi del 2019 stava motivando proteste delle associazioni cittadine, come accaduto in passato. “Avere assecondato questi approcci, nel momento in cui sono diventati forza di governo, non può reggere a un confronto con la realtà che è difficile gestire con la scelta del No”, dice Corrado Clini, ex ministro dell'Ambiente, che ha gestito la crisi di Ilva dopo il sequestro della magistratura nel 2012 seguito dal commissariamento e poi dalla cessione degli impianti. “Non hanno voluto governare la situazione. Magari cercando la possibilità di usare nuove tecnologie avrebbero potuto dare una svolta. L'approccio negativo non risolve il problema. (segue a pagina tre)


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