
A cosa mira chi tira con l'arco
Non si può centrare il bersaglio senza allontanarsene. La ricerca del gesto perfetto, le migliaia di frecce scoccate in solitudine prima di quella decisiva. La vita spiegata con il paradosso dell'arciere
Questo sport è, fin dall'antichità, un meraviglioso equilibrio fra un approccio scientifico, fatto di migliaia di ripetizioni del gesto (alla ricerca di quello ideale, che guiderà la freccia decisiva verso un animale, un nemico, un bersaglio), di un'attenzione ossessiva ai materiali e di una componente mentale mostruosamente importante. Così importante da assumere un significato religioso, sacro, come succede in Corea, Giappone o Buthan.
Tirare con l'arco vuol dire innamorarsi della capacità di saper compiere un gesto il più vicino possibile alla perfezione, ma soprattutto si tratta di allenare la capacità, fisica e mentale, di saper riprodurre quel gesto in condizioni che saranno sempre diverse e sottoposte a un numero infinito di variabili (il vento, la luce che cambia, la pioggia o il cuore che batte con una velocità diversa se la freccia che si sta per scoccare è quella decisiva per la vittoria). Dunque non occorre solo saper far bene un gesto, ma assumersene la piena responsabilità e riuscirci non quando è facile, ma quando è difficile farlo.
Ernest Hemingway la chiamerebbe grace under pressure, che è poi la caratteristica dei protagonisti dei suoi libri. Gli eroi di Hemingway sono umani capaci di saper fare con eleganza una cosa, quando le condizioni si fanno difficili o estreme. Santiago, il protagonista de Il vecchio e il mare, per esempio, pesca il marlin che sta aspettando da una vita intera combattendo strenuamente con lui e quando ce la farà, dopo uno sforzo immane, la sua vittoria sarà vanificata dagli squali che spolperanno quel pesce meraviglioso, lasciandone soltanto la carcassa legata al bordo della barca. Sarà tuttavia la bellezza di quel suo sforzo, di quella dedizione assoluta, di quella volontà indomabile a determinare la sua vittoria nella (apparente) sconfitta.
La cosa più incredibile del tiro con l'arco resta comunque il fatto che questa disciplina sia fondata su un clamoroso paradosso. Si chiama proprio così: il paradosso dell'arciere. La freccia, quando vola, ha un comportamento aerodinamico sorprendentemente metaforico. Dimenticatevi la linearità della pallottola che ha uno spin che ne aumenta la velocità di rotazione, stabilizzando la traiettoria. Niente di tutto questo. La freccia, appena scoccata, inizia a dimenarsi come se fosse animata, prima ancora di lasciare l'arco. Appena effettuato il rilascio, l'asta si incurverà, la punta si allontanerà dal bersaglio e la freccia incomincerà, volando via, a scodinzolare. Andrà verso sinistra, ma ritornerà verso destra dopo pochi decimi di secondo, curvando ulteriormente e permettendo alla parte terminale, dove c'è l'impennatura, di aggirare il riser, la struttura portante dell'arco. Da quel momento in poi la freccia continuerà a puntare a sinistra, poi tornare a destra e così via, fino a quando si conficcherà nel bersaglio, ricordando a tutti noi, dunque, che al bersaglio ci si avvicina per scatti, per momenti in cui apparentemente ci stiamo allontanando dall'obiettivo, altri in cui, in qualche modo, ci riallineiamo con lui.
Non è forse così in economia, nel business, in politica, nell'arte o nel processo di crescita di un adolescente?
Siamo sollecitati da costanti necessità di adattamento, correzioni continue, una danza che ci fa allontanare, avvicinare, riallontanare, riavvicinare a ciò che desideriamo. Non si può centrare il bersaglio senza saper uscire dalla traiettoria ideale, soprattutto non si centra il bersaglio se, in tante occasioni, non si ha il coraggio di saper mirare fuori dal punto dove, in realtà, si vuol far piantare la freccia.
È proprio così che occorre fare per competere e vincere nella disciplina dell'arco olimpico. Gli arcieri si sfidano, nel primo giorno di gara, in una modalità che si fonda sulla quantità delle frecce: 12 volée da 6 frecce ciascuna, per un totale di 72. Sono circa tre ore di gara, dove i punti ottenuti nelle singole volée si sommano (per capirci, il 10 è un dischetto grande più o meno come un cd, messo a 70 metri di distanza e l'attuale record del mondo è di 700 punti su un totale teorico disponibile di 720). Poi, nei giorni successivi, si cambia registro: la gara di qualifica non serve ad altro che a determinare una griglia di scontri a eliminazione diretta che si fondano su un sistema a set. Ogni set si disputa sulla distanza di tre frecce per un numero massimo di cinque set a disposizione. Al termine di ogni set, il punteggio si azzera, si ricomincia e se alla fine dell'ultimo set si conclude in pareggio, si risolvo tutto con lo shoot-off: una freccia a disposizione, il migliore passa il turno, l'altro torna a casa. Spietato, crudele, bellissimo. La quantità del primo giorno lascia spazio alla qualità (e naturalmente anche un po' al caso). Le distanze si accorciano clamorosamente, su tre sole frecce, credetemi, tutti possono battere tutti. Per i cultori della materia è come giocare a pallavolo disputando il primo set con il vecchio sistema del cambio-palla e poi quelli successivi con il rally point system, ma non per 25 punti. Diciamo, con buona approssimazione, per non più di 5 azioni.
Tutte queste cose stanno succedendo a ‘s-Hertogenbosch, in Olanda, dove si sta disputando il Campionato Mondiale di tiro con l'arco, valido anche come prima opportunità di qualificazione olimpica. Domani nella piazza centrale del borgo (dove passeggiava Hiëronymus Bosch, pittore della seconda metà del Quattrocento le cui opere sono visioni surrealiste incredibili per il periodo storico e che chiamano in causa la psicoanalisi, come il Trittico del Giardino delle Delizie, custodito al museo del Prado) di fronte una gigantesca cattedrale gotica, i migliori arcieri del mondo scoccheranno le loro ultime e decisive frecce. Il livello internazionale, negli ultimi anni, è mostruosamente cresciuto tanto sul piano della qualità che su quello dell'espansione geografica. Per dare un'idea, le nazioni rappresentate nelle finali saranno Corea, Cina Taipei, Malesia, Usa, Bangladesh, Germania, Cina, India, Olanda, Gran Bretagna e Italia. I nostri azzurri, infatti, in quella piazza ci saranno: il Mixed Team formato dalla coppia dell'Aeronautica Militare, Vanessa Landi e Mauro Nespoli, tirerà per il bronzo e l'atleta di Voghera (che nel suo palmares olimpico conta due medaglie a squadre, l'argento di Pechino e l'oro di Londra) tirerà per la stessa medaglia anche nella prova individuale. Tuttavia il risultato più importante è già in tasca: Nespoli si è guadagnato, con tredici mesi di anticipo, la difficilissima carta olimpica per Tokyo 2020. Per l'ennesima volta, la prossima estate in Giappone, la mente dell'arciere azzurro tenterà di mettere a punto l'algoritmo perfetto (mescolando volontà, materiali, tecnica, forza fisica e mentale, aerodinamica) per colpire al cuore milioni di tifosi pronti a emozionarsi di fronte alla sua ultima freccia. Occorre ricordare (e imparare, in qualche modo) che quell'ultima freccia altro non è che la parte visibile di un intero mondo sommerso, fatto da migliaia, migliaia e ancora migliaia di frecce precedenti, di pesi sollevati in palestra, di pioggia, di neve, di freddo, di vento, di sole, di caldo, di solitudine, di sorrisi, di arrabbiature, di viaggi, di vittorie, di sconfitte, di certezze, di dubbi, per colpire un dischetto giallo di 12,2 centimetri di diametro a 70 metri di distanza.
D'altronde come diceva Eugene Herrigel, ogni arciere, fondamentalmente, mira a se stesso.
Mauro Berruto


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