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il foglio internazionale

I figli viziati del benessere. La versione di Blanquer

Il libro dell’ex ministro di Macron fa un'analisi sulle sfide che ha davanti la Francia e l'intero occidente, dalla questione esistenziale dell'uomo moderno occidentale fino alla metropolizzazione, passando per le eredità e le appartenenze

"La standardizzazione del mondo, talvolta definita globalizzazione, sta provocando una crisi senza precedenti mettendo in discussione gli ecosistemi culturali” scrive l’ex ministro dell’Educazione francese, Jean-Michel Blanquer, nel suo nuovo libro “Civilisation française”. L’uomo moderno è stretto nella morsa tra la fuga in avanti della tecnologia e la reazione fondamentalista. La Francia sembra particolarmente colpita da questa crisi esistenziale. Ci sono delle ragioni che lo spiegano. Questo “paradiso i cui abitanti si credono all’inferno” batte tutti i record di pessimismo perché le fondamenta stesse della sua esistenza sono minacciate dalla fragilità della civiltà. I francesi non sono sempre stati infelici. In tempi più difficili e poveri, in cui non mancavano i pericoli, erano considerati un popolo felice e coraggioso (…).  Due guerre mondiali e le ripetute crisi economiche dal 1973 hanno indebolito la fiducia della nazione in sé stessa. Il paese degli inventori, dei creatori, delle arti, delle scienze e delle lettere ha finito per credersi diseredato dalla Provvidenza. A intervalli molto distanziati, riemerge la capacità di gioia collettiva e di stupore, come durante i Giochi olimpici. Lo sport sembra essere l’ultimo rifugio del nostro profondo bisogno di unità ed esaltazione. Ma ciò non basta e, ogni volta, l’entusiasmo svanisce rapidamente. Non ci amiamo più abbastanza. La Francia è un’idea che si è fatta carne. Per questo motivo è al centro di una delle grandi divisioni che attraversano la filosofia politica, che a volte tende a contrapporre la Repubblica e la nazione. Da un lato, si valorizza il contratto sociale, i princìpi astratti che traducono un ideale politico come “libertà, uguaglianza, fraternità”. Dall’altro, si pone l’accento sul paese reale, sulle sue tradizioni, sui suoi usi e costumi (…). 

 


Nella filosofia politica contemporanea ritroviamo questa opposizione. Da un lato, John Rawls propone di ragionare partendo da una finzione: quella del contratto sociale ideale che ogni cittadino approverebbe se, prima della sua nascita, ignorando in quale ambiente sarebbe nato, dovesse definire le condizioni di giustizia di una società libera ed equa. Dall’altro, Michael Sandel insiste sul carattere “situato” di ogni persona: l’uomo è costituito da una somma di eredità e appartenenze, il suo primo dovere è quello di farle vivere e trasmetterle. Il freddo e il caldo, il crudo e il cotto, l’innato e l’acquisito, il costruito e il genetico. Tutte queste grandi categorie del pensiero umano si proiettano in questa divisione. L’arte politica consiste nell’articolare queste dimensioni. Ciò è particolarmente vero per chi deve governare la Francia. Ecco perché alla fine di un discorso bisogna dire “Viva la Repubblica e viva la Francia”. Ecco perché bisogna capire che se l’ideale repubblicano è universale (...), la sua declinazione francese è unica, necessariamente unica. La prima delle politiche di civiltà è quella di controllare il proprio territorio e la propria popolazione. Qualsiasi governante che lasci andare alla deriva, senza una direzione, questi fattori fondamentali, la geografia e la demografia, indebolisce le basi esistenziali del proprio paese. “La politica di tutte le potenze risiede nella loro geografia”, diceva Napoleone. Lo spazio non è solo una questione di confini. È anche una questione di equilibrio. Eppure, da diversi decenni, abbiamo accettato collettivamente, a volte subendolo, a volte incoraggiandolo, due fenomeni mortali: la metropolizzazione senza meta e l’immigrazione incontrollata. La Francia non ha l’esclusiva di questa evoluzione. Il mondo intero è entrato nell’era della concentrazione urbana e delle migrazioni moltiplicate. Ma l’argomento deve essere approfondito e oggetto di una strategia. E questa strategia deve essere condivisa con il popolo. Perché è il popolo che ne subisce le conseguenze concrete.

 

Qual è la parte inevitabile e quella modificabile del fenomeno della metropolizzazione? In che modo possiamo influire sul corso degli eventi? (...) Ciò che è inaccettabile e intollerabile è la devitalizzazione di gran parte del paese a vantaggio di una decina di grandi città dove si concentrano sempre di più le popolazioni e la ricchezza. Si è lasciato che la città si opponesse alla campagna o il centro alla periferia. Bisognerebbe invece creare un legame armonioso tra tutte le parti della Francia. Oggi abbiamo uno spazio “innervosito” invece di avere un territorio “innervato”. Come un albero, il nostro paese deve sentire la linfa scorrere in tutto il suo corpo. Le nostre famiglie sono meno numerose, i nostri villaggi si stanno svuotando, l’età media aumenta mentre il numero delle nascite diminuisce. Se lasciamo che questo fenomeno continui, sperimenteremo a nostra volta ciò che altre civiltà hanno vissuto prima di scomparire: il lento indebolimento, l’incapacità di sostenere eserciti, di inventare, di espandersi. Perché una nazione senza figli è una nazione senza futuro. È quindi necessaria una politica di ripresa demografica, non per nostalgia, ma per necessità. Non è solo una questione di sussidi o di statistiche, ma di civiltà. (…).  La Francia deve proclamare che avere figli è un bene per sé stessi e per la nazione. Deve ritrovare l’orgoglio di essere un paese di famiglie, dove la maternità e la paternità sono onorate e dove ogni bambino è accolto come una ricchezza. Si tratta infine di coesione sociale. Una società frammentata, ansiosa e incerta non ispira fiducia nelle giovani generazioni. È garantendo sicurezza, servizi pubblici di prossimità, scuole solide e vivaci che si darà alle famiglie il coraggio di osare la vita. Già Ibn Khaldoun, nel Quattordicesimo secolo, sottolineava che la decadenza derivava dal calo della forza demografica. Dobbiamo guardarci da questa trappola e decidere di ritrovare lo slancio vitale che un tempo era la nostra forza (…).  Nella nostra condizione umana caratterizzata dall’impermanenza, la civiltà è l’elemento più duraturo. Paul Valéry ci ricorda tuttavia che, come ogni cosa, anche essa è mortale. Ciò la rende ancora più preziosa, poiché è allo stesso tempo viva e profonda.

 

Le civiltà sono come placche tettoniche della vita umana. Ne sono il sostegno più profondo e solido. Si muovono lentamente. Possono separarsi, unirsi, sovrapporsi, scontrarsi. Questi movimenti lenti e pesanti possono creare terremoti, ma anche generare nuove realtà. Che influenza abbiamo su questo? Ci viene posta la domanda esistenziale, l’eterna domanda esistenziale: essere o non essere. Continueremo a vivere all’altezza della civiltà? Sento già le urla di indignazione di alcuni al solo sentire queste parole. Non ascoltiamoli più. Sono gli apostoli del declino e, a modo loro, lo adorano perché hanno smesso di volere. Abbelliscono il loro nichilismo con ornamenti moderni. L’individualismo, il materialismo, il narcisismo e il cinismo li accompagnano. Bambini viziati della democrazia, pronti a prosciugare la fonte che dà loro la libertà; bambini viziati della Repubblica, pronti a svendere per particolarismi ciò che li costituisce; bambini viziati della Francia, pronti a tagliare le radici e i rami dell’albero senza il quale non esisterebbero.