
(LaPresse)
Un foglio internazionale
Il malessere occidentale
Dal woke al trumpismo passando per l’eredità del Sessantotto, la filosofa Julia Kristeva dice la sua su un momento di crisi culturale senza precedenti
Per me, il Maggio ’68, è stato innanzitutto un uragano che ha travolto i corpi” dice in un’intervista al Monde la scrittrice e psicanalista bulgara Julia Kristeva. “Il mio incontro con Philippe Sollers, nel 1966, mi ha insegnato cosa significa godere. Piacere erotico ma anche libido letteraria e filosofica, con la lettura di Marx e Rimbaud, Nietzsche e Foucault, Barthes e Benveniste. Per la giovane studentessa bulgara che ero e che era appena arrivata a Parigi, il Maggio ’68 era figlio della Rivoluzione francese e del libertinaggio. Un misto di Robespierre e Sade o Choderlos de Laclos. Robespierre osò dire alla Convenzione: ‘Il popolo francese sembra aver preceduto di duemila anni il resto del genere umano’. La frase è ovviamente esagerata, quasi folle. E se fosse vero, si chiedeva Sollers: ‘I rivoluzionari francesi hanno vissuto parlando senza sosta, per morire molto rapidamente’”.
Ma qualcosa l’ha turbata durante gli eventi del Maggio ’68, nonostante lo slancio che la animava. “‘Non siamo niente, saremo tutto!’, cantavano i miei amici, intonando in coro L’Internazionale. Ma perché cantare L’Internazionale, che mi ricordava gli apparatchik della burocrazia comunista? Perché questi riferimenti ai paesi marxisti-leninisti che avrebbero mandato questi libertari, spesso provenienti dalla borghesia francese, al gulag? Mi ricordavo allora l’avvertimento di Dostoevskij, che aveva intuito a suo tempo la massificazione e il nichilismo: ‘Io sono solo e loro sono tutti’, scriveva il romanziere russo. Io all’epoca aveva più voglia di dire: ‘Sono sola, con tutti’. La libertà nasce nella mia solitudine, ma non si lascia divorare dal ‘noituttismo’, come scrive ancora Dostoevskij, essa forgia un pensiero singolare, se e solo se è riconosciuta come tale dagli altri”.
Una eredità conservata di quegli anni. “Senza quella frattura nella struttura familiare tradizionale non ci sarebbero stati né il Pacs, né il matrimonio per tutti, né i diritti Lgbt. Ecco perché non mi riconosco in quel conglomerato ideologico radicalizzato chiamato ‘French Theory’ (termine coniato oltreoceano per riunire i pensatori francesi del post-strutturalismo come Roland Barthes, Jacques Lacan, Michel Foucault…), che ha conosciuto uno sviluppo particolarmente importante nel ‘wokismo’ dei campus americani. Di cosa si tratta? In Europa, e in nessun altro luogo, si è verificato un evento: si è reciso il filo con la tradizione. Constatare e sperimentare questa rottura non significa né negare né distruggere la memoria culturale, filosofica o etica che la precede. Al contrario, il ‘wokismo’ estremista, aspirato dall’antisemitismo, che si dichiara dipendente dalla cosiddetta French Theory, trasforma questa eredità critica in una denuncia unilaterale della società occidentale e dei suoi valori. E allo stesso tempo, la decostruzione, pur essendo inerente alla capacità di pensare, almeno da Sant’Agostino a Nietzsche, si trova al centro di un clamore mediatico che la demonizza, rendendola responsabile della ‘perdita dei valori’”.
Veniamo a Donald Trump. “Trump ha fatto entrare la nostra civiltà nella società del deal e della volontà di potenza, quella dell’efficacia della brutalità. Osservando Trump, Putin e compagni, si ha l’impressione di leggere Freud: i fratelli dell’orda primitiva si riuniscono per dividersi i beni di consumo, le armi e le donne nella devozione a un padre immaginario onnipotente. Il deal è il grado zero del contratto sociale”. Apparentemente più legato ai simboli, in particolare quelli religiosi, il putinismo è riducibile al deal. “La versione ortodossa di questa brutalizzazione delle relazioni non è certo più invidiabile, poiché si inscrive in una cultura in cui il Figlio (il credente) è un servitore del Padre (per Filium). Mentre nel cattolicesimo e nel protestantesimo il Figlio è associato al Padre (filioque), prefigurando così l’autonomia e l’indipendenza della persona e aprendo la strada all’individualismo e al personalismo occidentali. Nel maschilismo incarnato da Trump e Putin si gioca una relazione omoerotica di reciproca fascinazione. Anche questo affetto deriva dal patto dell’orda primitiva: come diceva Sandor Ferenczi, un discepolo di Freud, l’erotizzazione del simile frena l’avidità sessuale dei maschi, dando un senso psichico alla pulsione. Ciò non impedisce una manifesta omofobia, una violenta avversione per le persone transgender particolarmente marcata in coloro, come Trump e Putin, che non accettano il proprio omoerotismo”.
E’ possibile sfuggire a questo periodo dominato dalla volontà di potenza? “Di fronte a questa situazione, l’Europa appare come una promessa, una via singolare, una sopravvivenza contraria e controcorrente. E’ deplorevole che una parte di quello che viene chiamato il ‘Sud globale’ si stia precipitando nella strada aperta dalla Russia di Putin e dalla milizia Wagner. Anche se l’Europa ha fallito durante il periodo della Shoah e della colonizzazione, essa porta in sé le risorse critiche per opporsi a tutto ciò. Più che un ‘miracolo greco’, in cui sono nate la filosofia e la democrazia, esiste forse un ‘miracolo greco-giudaico-cristiano’ che, dopo aver ceduto ai dogmi identitari, si trova ora a dover affrontare il malessere delle democrazie liberali. La laicità francese ne è l’onda portante, tanto stimolante quanto incomprensibile al di fuori dell’Esagono. Spetta a noi assumerci questa eredità, quando ci manca la coesione europea e la sua autorità è minacciata dal Sud del mondo e dal Maga (Make America Great Again, il movimento trumpiano)”.
Con l’ascesa dell’estrema destra, stiamo assistendo al ritorno della “Francia ammuffita”. “Ha ragione a citare l’editoriale di Philippe Sollers intitolato ‘La France moisie’ (fu pubblicato sul Monde nel 1999) che ha esaltato alcuni, devastato e fatto infuriare altri, perché ogni parola uccide per stimolare e sostenere il risveglio. Avendo vissuto alcuni decenni con l’autore, ho imparato che in nessun posto si è più stranieri che in Francia, in nessun posto si è più stranieri nel miglior senso del termine che in Francia. Perché c’è Francia e Francia. E mi sono trasferita a tal punto in quest’altra lingua, il francese, che sono pronta a credere agli americani quando mi considerano un’intellettuale e una scrittrice francese. Il dibattito culturale e politico, più drammatico e lucido in Francia che altrove, costituisce un vero e proprio antidoto alla depressione nazionale, così come alla sua versione maniacale che è il nazionalismo. Ed è con un senso di gratitudine e orgoglio che rendo omaggio alla Repubblica francese che mi ha adottata”.
(Traduzione di Mauro Zanon)