Brexit (foto LaPresse)

Aperture e chiusure delle democrazie. Ragioni e falle di un binomio troppo seducente

Redazione

Caso Brexit da manuale: chi era per uscire è “chiuso” sui valori tradizionali, ma a favore del mercato. Tutto si complica con la globalizzazione. Scrive l’Economist (16/3)

Una delle più popolari interpretazioni della politica moderna è quella secondo cui la si potrebbe definire in base alla differenza tra aperto e chiuso, piuttosto che tra destra e sinistra”, ha scritto Adrian Wooldridge nella sua rubrica “Badgehot”, sull’Economist.

 

“‘Apertura’ significa essere a favore dell’apertura economica (immigrazione e libero commercio) e culturale (omosessuali e altre minoranze). ‘Chiusura’ significa ostilità a queste cose. E’ evidente che c’è un bel po’ di forzatura, in questa argomentazione. Donald Trump ha vinto la presidenza americana offrendo una dieta di nazionalismo all’insegna dell’America First, contro il globalismo di Hillary Clinton. I pro Brexit hanno vinto il referendum del 2016 con la proposta di ‘take back control’ dall’Unione europea. Eppure dovremmo fare attenzione a non spingere la definizione troppo in là. La dicotomia del ‘ponte levatoio alzato’ e del ‘ponte levatoio abbassato’ è fin troppo comoda. La gente che indugia in questo tipo di affermazioni non sta facendo analisi spassionate: si tratta di giocatori coinvolti in una battaglia politica. ‘Chiuso’ è utilizzato come descrizione peggiorativa (‘chiuso di mente’) e ‘aperto’ è dispiegato come termine elogiativo. Ci sono, inoltre, diversi fatti che stonano in questo disegno semplicistico. Si prenda la Brexit. I fautori dell’apertura la considerano un classico esempio di rivolta contro la società aperta. Eppure molti dei leader pro Brexit sono a favore proprio perché convinti che rappresenti un’opportunità di abbracciare l’apertura, contro la chiusura dell’Unione europea. O si consideri il Movimento 5 stelle in Italia. I pentastellati sono ‘aperti’ nel senso che sono un network, più che un partito, e che la loro ragion d’essere è quella di opporsi a un establishment chiuso. E tuttavia è chiuso in altre dimensioni: è contrario all’immigrazione e scettico verso l’insistenza dell’Ue sulla libertà di movimento. Il primo problema di tutto questo è che la divisione tra aperto e chiuso è piuttosto scivolosa. Ben poche persone sono davvero a favore di società completamente aperte: sarebbe perverso, ad esempio, permettere alle vittime di Ebola di attraversare liberamente i confini nazionali. Allo stesso modo, ben poche persone auspicano che il proprio paese si trasformi in un regno ermeticamente sigillato su modello della Corea del nord. La maggior parte della gente ragiona in termini di punti programmatici su uno spettro, piuttosto che in termini assoluti. Il secondo problema è che i diversi aspetti dell’apertura non sono automaticamente associabili tra loro. Lo stesso è vero per la chiusura. Jeremy Corbyn, leader del Partito laburista britannico nonché icona politica per migliaia di giovani, in fatto di stili di vita è aperto, così come lo è per l’immigrazione. In economia, è invece per la chiusura. Molti fautori della Brexit sono all’opposto dello spettro. Sono ‘chiusi’ quando si parla di valori tradizionali come il matrimonio gay. Sono ostili verso l’immigrazione. Ma sono ‘aperti’ quando si parla di acquisizioni estere di società ‘britanniche’. Il terzo problema è che i giovani cosmopoliti […] sono meno cosmopoliti di quanto sembri. La loro tolleranza si estende solo alle idee con cui sono genericamente d’accordo: provate a opporvi alle nozze gay o all’aborto in un bar universitario e vedete fin dove arrivate. Il maggiore dei problemi con questa dicotomia, però, è che il supporto delle persone per l’apertura o la chiusura dipende dai loro interessi e dalle circostanze: sono a favore dell’apertura finché sostiene i loro interessi economici ma, con l’eccezione di un paio di ideologi o idealisti, non oltre a questo. Chi sposa la teoria dell’aperto vs chiuso spesso sostiene che il ceto borghese (ossia il suo ceto) è più a suo agio con la globalizzazione perché più istruito. In realtà ci sono ragioni meno illuministiche che spiegano perché le classi medie siano più aperte verso la globalizzazione. La più ovvia è che la globalizzazione si è spinta molto più in là nel settore manifatturiero che in quello dei servizi. Gli impieghi nei servizi sono stati ampiamente protetti, sopratutto nel settore pubblico. Le classi medie sono più ‘aperte’ verso la globalizzazione, in parte, perché non ne hanno davvero esperito gli aspetti più crudi. Quindi, le cose non sono sempre quel che sembrano. Ho il sospetto che il supporto della borghesia per le economie aperte cambierà radicalmente in futuro, quando il ceto medio si troverà ad affrontare due fenomeni: le macchine intelligenti che ridurranno la domanda di cervelli fini e la competizione di persone sempre più istruite provenienti dai paesi in via di sviluppo. La mia ultima ragione per criticare la divisione tra aperto e chiuso è che c’è un modo di gran lunga migliore di comprendere la politica moderna: ossia attraverso il prisma della meritocrazia, e in particolare la distinzione tra quelli che passano gli esami e quelli che non li passano. Superare gli esami apre alla possibilità di entrare in un mondo protetto dai rovesci della globalizzazione. I bravi a scuola coniugano una comune abilità di navigare tra le insidie della globalizzazione a una comune visione del mondo (il cosmopolitismo narcisistico) che acquisiscono all’università e che li lega agli altri membri del loro club. Non passare gli esami, invece, ti condanna a un mondo imprevedibile in cui si è molto più esposti alle dinamiche globali, come la trasmigrazione dei lavori nel manifatturiero a zone del mondo in cui costa meno.

 

Gli ‘asini della classe’ sono legati tra loro da una simile attitudine verso il mondo: da un lato, covano rabbia verso le élite autocompiacenti che sostengono di essere cosmopolite finché i loro lavori vengono protetti, dall’altro sono sempre più inclini a far calare a picco l’intero sistema”.

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