
Andrea Sala (foto Daniele Signaroldi)
Fauna d'arte
“La materia resta viva”. il percorso di Andrea Sala dal domestico al paesaggio
Dalla mostra "Above Touch" alle nuove sculture per spazi aperti, la ricerca di un equilibrio tra controllo e imprevisto, tra ordine e casualità. Il dialogo silenzioso con l’architettura e un approccio che privilegia il rispetto dei materiali, che sia travertino o ceramica
Nome e cognome: Andrea Sala
Luogo e anno di nascita: Como, 1976
Gallerie di riferimento e contatti social: Federica Schiavo, Roma - Instagram
L'intervista
Intervista realizzata in collaborazione con Anna Setola
Qual è la funzione dell’arte oggi?
Il ruolo dell’arte oggi è coltivare una consapevolezza del tempo presente: stare nel qui e ora con l’intuizione silenziosa di ciò che potrebbe accadere.
Quali sono i tuoi riferimenti visivi e teorici?
Più che in nomi, testi o opere specifiche, i miei riferimenti si radicano nelle relazioni che si instaurano tra le cose, nei modi in cui un oggetto, un’immagine o un pensiero possono essere osservati da prospettive diverse. Mi interessa la logica del quotidiano, il modo in cui gli spazi della casa con le loro proporzioni, misure e gesti incidono sulle nostre vite. Uso riferimenti presi da forme archetipiche, dalla storia dell’ornamento e dell’architettura, ma anche da oggetti comuni che diventano strumenti o quasi reliquie di rituali domestici. Anche quando consulto un libro, guardo il lavoro di altri artisti o designer, ciò che mi interessa non è tanto il contenuto in sé o l’aspetto dell’opera, quanto le relazioni che nascono da quell’incontro: i punti di vista molteplici che un fenomeno o un oggetto possono aprire. Per fare un esempio, un riferimento teorico che mi è caro è L’uovo alla kok di Aldo Buzzi: un testo che, pur parlando di cucina, diventa un modo per riflettere sullo sguardo, sul metodo, sul prendersi cura delle cose minime e sulle infinite ramificazioni che un’osservazione apparentemente semplice può generare.
Come trasformi un materiale grezzo in un’esperienza visiva?
Più che trasformare un materiale, cerco di ascoltarlo. Non lo snaturo né lo forzo: il mio gesto è diretto e sincero, volto ad amplificarne le potenzialità. Il materiale per me non è mai un semplice supporto, ma parte integrante del linguaggio dell’opera, un tramite vivo di tempo, memoria, temperatura, relazione. Ho un grande rispetto per la materia e cerco di lasciarla il più possibile vicina alla sua condizione naturale. Penso, ad esempio, alla terracotta: per molto tempo l’ho utilizzata senza smaltatura, proprio perché il suo colore e la sua superficie raccontano già un legame forte con la terra. La smaltatura è un processo che ho introdotto solo di recente, quando sentivo che quel tipo di intervento poteva aggiungere qualcosa, senza annullare l’identità del materiale. Nelle Nuvole, le opere attualmente in mostra da Federica Schiavo, ho scelto il travertino proprio per la sua porosità e per la naturale irregolarità che rimanda visivamente all’idea stessa di nuvola. In altri casi la scelta del materiale nasce da una relazione personale, affettiva: ad esempio, per l’opera Piscine, ho usato il travertino perché mi ricordava i bordi della piscina che frequentavo da bambino. In ogni caso, il materiale è sempre un veicolo coerente con l’idea dell’opera. La materia resta viva, non viene mai piegata a uno stile, ma accolta per quello che è, lasciando che sia lei a suggerire la forma e la presenza del lavoro nello spazio.
In che modo hai iniziato a fare l’artista?
È stato un rifiuto, una presa di distanza da altre strade, come l’architettura o il design, che inizialmente avevo considerato, ma nelle quali non mi riconoscevo fino in fondo. L’arte, al contrario, mi ha offerto uno spazio aperto, in cui poter costruire un metodo mio, meno legato alla funzione e più vicino a una logica di osservazione, di ascolto, di trasformazione sottile. Architettura e design restano comunque riferimenti fondamentali nel mio lavoro, ma non come categorie professionali da abitare. Sono fonti di linguaggio, di misura, di attenzione ai dettagli. Sono strumenti che utilizzo in un contesto che non ha bisogno di rispondere a un’utilità precisa, ma può lasciare aperte domande, relazioni, possibilità.
Com’è organizzata la tua giornata?
La chiave della mia giornata è la routine. C’è una ripetitività, quasi rituale, in alcune abitudini. Prima di andare in studio seguo sempre lo stesso ordine di azioni, e anche una volta in studio l’approccio al lavoro non cambia: le opere si trasformano, ma il processo che le genera rimane stabile. Le idee prendono forma attraverso passaggi ben definiti: partono da un’intuizione, un'idea, passano per un modellino, che per me è un momento fondamentale, e solo dopo diventano opere compiute. Ogni fase ha il suo tempo, la sua coerenza, e si innesta dentro un ritmo quotidiano che mi permette di ascoltare le cose e farle maturare. Se dovessi usare una metafora per descrivere l’importanza della ripetizione e della routine, direi che le mie giornate sono come una serie di pezzi che, messi insieme, compongono un’immagine più grande. Vado in studio tutti i giorni. È un luogo pratico, ma anche mentale, dove posso mettere alla prova idee, materiali, proporzioni.
In che misura la dimensione “domestica” plasma i tuoi oggetti?
Non direi che li plasma. Piuttosto, credo che la dimensione domestica entri nel mio lavoro in diversi modi. Innanzitutto attraverso la logica dello sguardo: nel domestico c’è sempre un filtro, come una finestra che mette in relazione l’interno con l’esterno. Anche quando c’è un elemento naturale, questo non è mai semplicemente “natura”, ma natura osservata da una distanza, mediata da un punto di vista che appartiene all’interno dell’abitare. Inoltre le opere non nascono mai per uno spazio, ma dagli spazi: è il contesto in cui un oggetto andrà a collocarsi a determinare forma, dimensione e proporzione. È come se quelle opere fossero sempre state lì, come se emergessero organicamente dall’ambiente stesso. Una volta inserite nel loro contesto, non urlano né dominano, ma si integrano, stabilendo un dialogo silenzioso e fluido con l’architettura e gli oggetti che già abitano quello spazio.
A che cosa stai lavorando?
A settembre si concluderà la mostra Above Touch da Federica Schiavo, dove i miei lavori dialogano con quelli di Mathieu Meijers. Parallelamente sto lavorando a una grande scultura per una commissione privata all’interno di un parco. Per me è un importante cambio di scala del guardare. È come se stessi usando un pennello più grande: lo spazio esterno impone un altro ritmo, altre proporzioni, un diverso tipo di attenzione. Cambia il modo in cui l’opera si relaziona al corpo, all’ambiente, al tempo della visione. Questo passaggio mi permette di aprire nuove possibilità nel mio modo di lavorare, senza snaturarlo, ma espandendolo.
Come bilanci ordine e casualità nelle tue opere?
La percentuale di casualità è minima, ma presente, e per me ha un ruolo preciso. Accetto variazioni che emergono dal processo, come i ritiri dello smalto nella ceramica o le fenditure nella pietra, perché aggiungono qualcosa all’opera, un elemento che non avevo previsto ma che può arricchire il risultato finale. A volte la casualità nasce anche da piccoli errori di lettura o trascrizione, nel passaggio dal modellino al disegno tecnico, ma sono aspetti che non elimino: li accolgo come parte del processo. Mi interessa che la materia abbia una voce, che possa rispondere in modo proprio, ma sempre dentro un equilibrio preciso. C’è un controllo costante, una struttura chiara, dentro cui questi scarti trovano posto e senso.
Che cos’è per te lo studio d’artista?
Il mio tavolo. È lì che si concentra tutto: i disegni, i materiali, gli strumenti, ma soprattutto lo spazio per pensare. Ha le ruote, quindi si muove con me: non è un punto fisso, ma un’estensione del mio modo di lavorare, un luogo mentale prima ancora che fisico. Su quella superficie lavoro sulla scala, costruisco i modellini, che sono sempre un passaggio chiave, e metto alla prova le idee. È un micro-mondo che contiene già, in piccolo, la logica del mio lavoro. Lo studio per me è anche questo: un luogo dove la ripetizione quotidiana, la pazienza del gesto, l’ascolto della materia e lo sguardo sulle cose si concentrano. Non è solo il posto dove le opere prendono forma, ma dove si forma anche il mio modo di guardare e di costruire relazioni con lo spazio, gli oggetti, le immagini.



Le opere
Andrea Sala
Di Terra, di Buchi e di Nuvole, 2025
Travertine and pastels 80 x 51 x 9 cm
Courtesy the Artist and Federica Schiavo, Rome
Photo Giulia Pietroletti
Andrea Sala
Untitled, 2015
Glass. bondo colored with oxides, glazed ceramic 107 × 78.5 × 10 cm
Courtesy the Artist and Federica Schiavo, Rome
Andrea Sala
Piscine, 2022
travertine, dry pastel 80 × 163 × 2 cm
Courtesy the Artist and Federica Schiavo, Rome
Andrea Sala
Serviti/Pomodori III, 2025
Glazed terracotta 31 x 41 x 24 cm
Courtesy the Artist and Federica Schiavo, Rome
Photo Tommaso Tanin
Andrea Sala
Lavati le mani, Terracotta rossa, 2022
Terracotta 30 × 33 × 136.5 cm
Courtesy the Artist and Federica Schiavo, Rome
Photo Andrea Rossetti
Andrea Sala
Pulisci i piedi, Bronzo due, 2022
Brushed bronze 10.5 × 16 × 9 cm
Courtesy the Artist and Federica Schiavo, Rome
Photo Andrea Rossetti
Andrea Sala
Il Salotto, 2020
Satin enamel on steel 50 x 90 x 40 cm
rivate collection
Photo Andrea Rossetti
Andrea Sala
Zucca scritta, 2024
Pumpkin and enameled steel 17,5 x 32 x 7 cm
Courtesy the Artist and Federica Schiavo, Rome
Photo Daniele Signaroldi
Andrea Sala
National Park Blanket, 2023
Dry pastel, colored crayons, oil pastel, gouache and graphite on paper 109,4 × 75,4 cm
Courtesy the Artist and Federica Schiavo, Rome
Andrea Sala
Balcone, 2020
Crayon on paper 48 x 33 cm
Courtesy the Artist and Federica Schiavo, Rome