Za Kuru Kappuru, ritratto The Cool Couple

Fauna d'arte

La partecipazione del pubblico e l'arte con l'intelligenza artificiale. I The Cool Couple si raccontano

“Essere artisti è un atto di generosità non richiesto”. Il ruolo dell'ironia e della tecnologia nel lavoro di Niccolò Benetton e Simone Santilli

Nome e cognome: The Cool Couple (Niccolò Benetton e Simone Santilli)

Luogo e anno di nascita: Niccolò: Arzignano (VI), 1986; Simone: Portogruaro (VE), 1987

Gallerie di riferimento e contatti social

MLZ Art Dep, Trieste; MAAB Gallery, Milano

Instagram: @the_coolest_couple


 

L'intervista

Intervista realizzata in collaborazione con Anna Setola

  

Qual è la funzione dell’arte oggi?

Come artisti abbiamo sempre sentito un forte senso di responsabilità. Essere artisti è un atto di generosità non richiesto. Ci si trova sempre a considerare il proprio lavoro come un qualcosa di indispensabile, qualcosa che debba riuscire a mettere in atto un cambiamento anche se solo per una infinitesima percentuale. Sappiamo bene che la realtà è molto diversa e che forse l’arte non ha davvero una funzione e che forse non deve funzionare. Non deve necessariamente avere un obiettivo ma lasciare delle tracce senza imporsi. Forse tutto ciò che vorremmo dire è espresso molto bene a pagina 119 di The medium is the Massage di Marshall McLuhan e Quentin Fiore che citiamo integralmente:

 

John Cage:

"Bisogna essere disinteressati, accettare che un suono è un suono e un uomo è un uomo, rinunciare alle illusioni sulle idee di ordine, alle espressioni di sentimento e a tutto il resto delle nostre ereditate sciocchezze estetiche."

"Il fine più alto è non avere alcun fine. Questo ci mette in accordo con la natura, nel suo modo di operare."

"Ognuno è nel posto migliore."

"Tutto ciò che facciamo è musica."

"Il teatro avviene continuamente, ovunque ci si trovi. E l'arte serve semplicemente a convincere che è così."

"Mi dissero [I Ching] di continuare a fare ciò che stavo facendo e di diffondere

GIOIA

e

rivoluzione."

 

Che importanza ha l’ironia nei vostri lavori?

Moltissima. E il suo primo oggetto siamo noi, a cominciare dal nome che ci siamo dati. Fare dell’ironia un presupposto operativo a nostro avviso significa giocare con il sistema dell’arte per problematizzarne alcuni aspetti ed esporne le regole. Molti nostri progetti scherzano sulle due dinamiche, come Cool People Pay Happily, in cui applicavamo il modello freemium alle nostre opere consentendo ai visitatori di collezionare una nostra opera gratuitamente, sebbene incompleta, e di pagare una modica cifra per ricevere a casa il pezzo mancante corredato di certificato di autenticità. La posizione dell’artista è sempre contraddittoria, specialmente oggi. E noi abbiamo deciso di farne parte della nostra pratica.

 

Com’è organizzata la vostra giornata?

Si tratta innanzi tutto di due giornate, visto che abitiamo ai capi opposti della penisola. Ci svegliamo in due luoghi lontani anche per immaginario: da un lato la brezza marina, dall’altro i gas di scarico sui viali milanesi. Passiamo molto tempo in classe, con i nostri studenti. Una buona parte della settimana è spesa confrontandoci con loro e in quei momenti testiamo domande e curiosità che ci frullano in testa. Parallelamente abbiamo una linea diretta e da anni siamo ormai abituati a lavorare in remoto (il Covid in questo senso non ha avuto un particolare impatto sulle nostre vite). Le nostre giornate sono molto meno strutturate di quello che sembrano e siamo abituati a lavorare su più cose contemporaneamente. Com’è comune per molti di noi, lavoriamo sempre: si fa sempre ricerca, si discutono sempre le idee, si lavora sempre ai progetti, anche nei momenti più impensabili. Poi, dal momento che non dipendiamo da uno studio fisico, i nostri progetti crescono anche in luoghi abbastanza improbabili, come il treno o l’aereo. Una cosa che ci manca in questi ultimi anni sono i tempi morti, in cui ci fermavamo e lasciavamo decantare le idee. Oggi è tutto più frenetico.

 

Come bilanciate l’uso delle nuove tecnologie con una critica spesso implicita ai loro effetti sulla società?

In molti progetti abbiamo toccato il tema del rapporto tra nuove tecnologie e vita quotidiana, un argomento che ci ha sempre affascinati perché ci ha toccato nel vivo da subito. Eravamo studenti quando è scoppiata la Primavera Araba, che per noi fu una rivelazione: le immagini low-fi che provenivano dall’altro lato del Mediterraneo ribaltavano tutto quello che avevamo studiato fin a quel momento. Da allora non siamo mai stati dei tecno-entusiasti, ma abbiamo sempre seguito con interesse gli ultimi sviluppi in ambito tecnologico, specialmente se legati all’immagine. Il punto è sempre quello di suscitare una riflessione sull’impiego dei dispositivi tecnologici. In Way Out ad esempio avevamo inserito un jammer in una scultura per ragionare sul modo in cui gli assistenti domestici stavano riscrivendo i contorni della nostra privacy. Recentemente ci siamo confrontati con le tematiche relative all’IA generativa in After Such a Long Journey, un progetto sviluppato in concomitanza con una residenza a Monte Verità, dove leghiamo le visioni di società alternative nate in quel luogo, alla fondamentale alterità dell’intelligenza sintetica.

 

In che modo avete iniziato a fare gli artisti?

Eravamo compagni di corso e ci aiutavamo reciprocamente nei progetti didattici. Poi un giorno, per una pubblicazione dell’accademia, ci siamo imbarcati in un viaggio nei Pirenei e siamo finiti in un luogo letteralmente surreale. Ci dovevamo fare un documentario, ma quell’esperienza ci fece capire due cose: la prima era che volevamo lavorare insieme; la seconda, che eravamo entrambi proni alla procrastinazione. Il documentario, infatti, non l’abbiamo mai montato. 

 

Quali sono i vostri riferimenti visivi e teorici?

Abbiamo cominciato studiando fotografia e tra i tanti autori che ci hanno ispirato Franco Vaccari spicca per il suo uso avveniristico del mezzo e il modo in cui riusciva a riscrivere le dinamiche dello spazio espositivo con piccoli e semplici gesti. Poi Trevor Paglen, e Hito Steyerl. Ci sarebbe molto da dire, ma sono stati due guide negli anni non solo con le loro opere, ma soprattutto con i loro scritti. Le nostre radici teoriche affondano poi nei media studies e nei visual culture studies. Il resto è tutta curiosità. Ci piace sporcarci le mani con qualsiasi cosa per cui il nostro framework visivo e teorico è una costellazione di materiali disparati, da scene di film a topic virali, videogiochi, opere d’arte, animali, musica e via dicendo.

 

Che cos’è per voi lo studio d’artista?

Un luogo multidimensionale. Il nostro studio vive in più luoghi fisici e in tante dimensioni intangibili: un pezzo è a Milano, anzi più pezzi sono lì, un altro è in Veneto, un altro ancora a Siracusa. Poi c’è il Cloud, dove si trova una grandissima parte del nostro lavoro e dove ci incontriamo il più delle volte. È quindi uno studio fatto di casse, librerie, polvere, tab, cartelle, duplicati, nomi di file lunghissimi e quaderni e agendine piene di scarabocchi e appunti che possiamo comprendere soltanto noi.

  

  

Quanto conta per voi che il pubblico partecipi attivamente all’opera, anche senza rendersene conto?

La partecipazione del pubblico è un tema che ci ha sempre interessato molto. La nostra prima mostra di un certo spessore, in cui avevamo presentato la prima parte di Approximation to the West, conteneva una notevole quantità di apparati per agevolare la comprensione della storia alle spalle del progetto. A Kind of Display cercava di coinvolgere il pubblico tramite una pedana su cui era posizionata una sedia da barbiere e venivano offerti tagli di barba gratuitamente per la prima settimana di apertura. In Karma Fails il pubblico è tutto: le sessioni di meditazione fanno accadere il progetto all’interno dell’immaginazione dei partecipanti. E anche quando il coinvolgimento non è esplicitato c’è sempre uno spettatore ideale che interpelliamo e al quale rivolgiamo la nostra attenzione.

 

A che cosa state lavorando?

Tra la fine dell’anno scorso e l’inizio di quello corrente, grazie al supporto di MAAB Gallery e MLZ Arts Dep e grazie al dialogo con il curatore Arnold Braho, abbiamo dato vita ad una nuova parte di un progetto iniziato in Sudafrica nel 2017. Territorial Machine: Extracting Nature cerca di espandere ulteriormente le tematiche affrontate nel cortometraggio The Cute and the Useful e nell’omonima pubblicazione. Inoltre, stiamo sviluppando un’opera permanente per il Museo della Montagna di Torino e stiamo scrivendo una performance che si terrà a settembre. Parallelamente c’è un progetto di libro che, per via della nostra grande abilità nel procrastinare, dubitiamo che vedrà la luce a breve. Nonostante ciò continuiamo a lavorarci.

 

Le opere

The Cool Couple, A Kind of Display, Les Rencontres des Arles, 2015

           

 

LINK

 

The Cool Couple, Approximation to the West, Untitled, 2014. Courtesy MLZ Art Dep, Trieste.

            

 

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The Cool Couple, Approximation to the West, Never Trust the West Again, 2015. Courtesy MLZ Art Dep, Trieste.

LINK

 

The Cool Couple, Cool People Pay Happily, Premio Graziadei, MACRO, 2016

            

FILM

 

The Cool Couple, Karma Fails, Museo del Novecento, 2017

        

 

LINK 

 

The Cool Couple, Territorial Machines, Non ti scordar di me, 2024. Courtesy, MAAB Gallery, Milano

           

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The Cool Couple, Territorial Machines, Fallen, 2022, Courtesy, MAAB Gallery, Milano

           

 

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The Cool Couple, Territorial Machines, Rhino model, 2022, Courtesy, MAAB Gallery, Milano

                 

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The Cool Couple, Winding and Unwinding, 2024. Courtesy MLZ Art Dep, Trieste

            

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The Cool Couple, Winding and Unwinding, 2024. Courtesy MLZ Art Dep, Trieste

            

 

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