FAUNA D'ARTE

La poetica dell'ordinario. Intervista a Serena Vestrucci

Francesco Stocchi e Gabriele Sassone

I pupazzi di neve al mare, la possibilità di essere dritti o rovesci, il tempo perso. "Lo studio? È ovunque io mi trovi"

Fauna d'arte è una ricognizione intergenerazionale sugli artisti attivi in Italia. Ci facciamo guidare nei loro studi per conoscere dalla loro voce le opere e i modi di lavorare e per capire i loro sguardi sull’attualità. Il titolo si ispira a una sezione di Weekend Postmoderno (1990), il romanzo critico con cui Pier Vittorio Tondelli ha documentato un decennio di cultura e società italiana. A differenza del giornalismo e della saggistica di settore, grazie a “Fauna d’arte”, Tondelli proponeva uno sguardo sull’arte contemporanea accessibile e aperto, interessato a raccontare non solo le opere ma anche le persone, il loro modo di vivere dentro l’arte.

    

Oggi questo approccio ci permette ancora di parlare degli artisti, ma in futuro anche delle altre figure professionali come critici e curatori, galleristi e collezionisti, con lo scopo di restituire la complessità di un sistema attraverso frammenti di realtà individuali.


 

Nome: Serena Vestrucci

Luogo e data di nascita: Milano, 1986

Galleria di riferimento e contatti social: Galleria Renata Fabbri, Milano / sito: www.serenavestrucci.com / IG: serenavestrucci

   

L'intervista (ha collaborato Giulia Bianchi)

Quali sono i tuoi riferimenti artistici e teorici?

Molti artisti hanno catturato per ragioni diverse la mia attenzione, e a questi se ne aggiungono sempre di nuovi. Posso citare alcuni nomi, ma è un elenco parziale e in continuo cambiamento. Marcel Duchamp, per aver spostato il problema dell’arte da estetico a critico; Alighiero Boetti, per il pensiero, la matematica, la regola, i colori, la latteratura sottesa dietro ogni opera; John Bock, per la componente performativa e corporale; Fischli and Weiss, per l'ironia; Urs Fisher, per la duttilità del gioco; Francis Alÿs, per la costruzione spaziale fatta con il nulla; Jason Dodge, per la manipolazione del quotidiano. E così via...

In letteratura direi L’Odissea di Omero, per la fantasia, Palomar di Italo Calvino, per le descrizioni plastiche, Cemento di Thomas Bernhard, per la condivisione del senso di improduttività, In nessun modo ancora di Samuel Beckett, per l’importanza del fallimento. Poi c’è un libro di Martin Kippenberger: No Drawing, No Cry. È pieno di carta da lettere in bianco degli alberghi di tutto il mondo. E così via...

 

In che modo hai iniziato a fare l’artista?

A 19 anni mi sono iscritta all'Accademia di Belle Arti di Milano, nel corso di Alberto Garutti. I tre anni trascorsi a Brera sono stati il momento più incisivo per la mia formazione. La nostra era l'Aula 1 e lì si iniziava ad avere un po’ più di coraggio e a ricordarsi di chiedersi sempre cosa aggiungiamo di nuovo all’arte con il nostro lavoro. Il corso di Garutti mi ha aiutato ad essere rigorosa con il mio lavoro, seria ma non seriosa.

Poi sono partita. Sono andata a vivere a Berlino, dove ho cambiato diversi lavori, dall'assistente di artisti alla centralinista full time in un call-center... Dopo due anni ho sentito il bisogno di tornare a studiare e mi sono iscritta all’Università IUAV di Venezia. Appena arrivata sono stata selezionata con borsa di studio tra gli artisti assegnatari degli atelier della Fondazione Bevilacqua La Masa, e così, tra un anno di residenza e i corsi universitari, ho iniziato con le prime mostre e le prime collaborazioni.

 

Com’è organizzata la tua giornata di lavoro?

Quando si ha a che fare con l’arte, diventa un momento di lavoro anche cercare di ammazzare il tempo, o, altre volte, di perderlo. Penso all’importanza di un’attività che si rivela giorno per giorno, lentamente, quasi nascesse nei momenti di pausa, in quei momenti in cui si è sdraiati sotto gli alberi in un mattino d'agosto e ci si sente comunque costretti a pensare.
Allora mi rendo conto che il tempo che non passo a lavorare diventa il mio vero lavoro.

Con una certa cadenza registro dei brevi video che più che altro mi interessano per il parlato, non tanto per la componente visiva. Li considero dei diari che testimoniano il presente, il racconto della settimana. Sono per mia figlia, per quando sarà grande.

 

Che cos’è per te lo studio d’artista?

Lo studio è ovunque io mi trovi. Qualunque luogo può essere stimolante e unico. Il lavoro è il continuo interrogarsi sul proprio ruolo nel mondo e metterlo costantemente in questione.

  

   

Perché la poetica dell’ordinario è importante nella tua pratica?

Sono attratta da tutto quello che è ordinario e apparentemente inutile perchè mi cattura il tentativo di trovare un senso a ciò che banalmente accade, o al contrario, di stravolgerlo. Ovunque dispongo della possibilità di osservare qualcosa: risolvere un problema spostandone semplicemente i pezzi, invece di agire per aggiunta o sostituzione, ha a che fare con l’artisticità. Posare supini o proni ha determinato la distanza tra l’Olympia di Manet e Lo spirito dei morti veglia, dipinto da Paul Gauguin trent’anni dopo; la possibilità di essere dritti o rovesci ha concesso a Kandinskij di leggere, in quel famoso acquarello capovolto, le prime forme astratte; lo scegliere tra la verticalità e l’orizzontalità ha permesso a Pollock di uccidere la pittura da cavalletto e di inaugurare il tempo del dripping. Riflettere sulla posizione (dell’arte/nell’arte) significa interrogarsi sulla differenza tra l’essere fermi o in movimento: Bruce Nauman ha costruito gran parte del lavoro semplicemente camminando avanti e indietro nel suo studio.

 

Come consideri lo spazio pubblico nella creazione dell’opera d’arte?

Che si tratti di spazio pubblico o privato, dentro al museo o fuori dal museo, l’artista deve sempre riflettere criticamente sul suo senso di responsabilità verso il contesto in cui lavora.

 

Perché senti la necessità di decontestualizzare la quotidianità?

Ero al quarto anno di liceo a Milano e la scuola riuscì ad organizzare un viaggio studio a New York. Tra le diverse visite, arrivò anche il pomeriggio al Guggenheim Museum. Mi erano rimasti pochi soldi (all’epoca non possedevo un bancomat). Ricordo che quel pomeriggio avevo veramente fame. Iniziai a salire questa lunga spirale. A un certo punto vidi un cumulo gigante di caramelle alla liquirizia. Quando capii che si potevano prendere me ne riempii completamente le tasche e le mangiai per tre giorni.

Quell’opera di Felix González-Torres è stata un incontro meraviglioso.

  

A quali progetti stai lavorando?

L’ultimo progetto a cui sono stata invitata a partecipare è Una Boccata d’Arte, promosso dalla Fondazione Elpis di Milano in collaborazione con Galleria Continua. La Fondazione Elpis ha selezionato 20 artisti e 20 borghi italiani con meno di cinquemila abitanti – uno per ogni regione – e assegnato a ciascun artista un borgo, solitamente mandando al Sud artisti che lavorano al Nord e viceversa.

A me è stato assegnato il borgo di Cetara in provincia di Salerno e il mio progetto – tutt’ora visibile fino al 25 settembre – è stato realizzato con il patrocinio della Regione Campania e del Comune di Cetara e coordinato da Giulia Pollicita.

A Cetara non nevica quasi mai, è un fenomeno straordinario: per i cetaresi quasi sconosciuto. Ho immaginato di portare dei pupazzi di neve al mare. I pupazzi di neve sono come le nuvole, come le onde: tutti abbiamo in mente l’immagine di un pupazzo di neve, eppure ognuno è diverso, non si ripetono mai. La loro bellezza risiede nel loro essere unici e al tempo stesso universali.

L’intervento che ho sviluppato mostra l’installazione di tre sculture a forma di pupazzo di neve realizzate in sale marino e resina, e un ciclo di cinque dipinti diffusi in alcuni degli storici esercizi commerciali del borgo.


Portare dei pupazzi di neve a Cetara significa parlare di inclusione del diverso, di ospitalità, di accettazione di ciò che è altro da sé.
I pupazzi di neve provengono da un altrove, sono estranei, stranieri a questo contesto.


Si potrebbe pensare che siano sbarcati dal mare e quindi fatti di sale. E qui si crea il cortocircuito: sono fatti di neve o sono fatti di sale?
L’attività per la quale Cetara è rinomata ovunque è la pesca delle alici da cui si ricava la tradizionale colatura di alici. Una volta pescate, le alici vengono ripulite di testa e interiora e lasciate sotto sale per un tempo di tre anni. Il sale è dunque un elemento fondamentale per questo processo. Pensare a Cetara significa immediatamente parlare di pesca e quindi di sale.


L’opera si intitola Abbronzatissimi ed è stata concepita proprio per interagire con Cetara nel periodo dell’anno in cui il sole è più protagonista: in estate. Sia la neve che il sale si sciolgono con l’esposizione al sole: il titolo Abbronzatissimi allude ironicamente all’impossibilità per dei pupazzi di neve di uscire dal loro biancore e abbronzarsi, perché ciò presupporrebbe il loro scioglimento, la loro fine.

 
In psicanalisi, “perturbante” è tutto ciò che si presenta come estraneo e non familiare al soggetto, generando angoscia e terrore. Ma non penso che una perturbazione – cioè la modificazione di una condizione di quiete, di normalità, di ordine – abbia necessariamente conseguenze dannose o pericolose.


In questo caso l’opera incontra la vita quotidiana di Cetara, le sue tradizioni e i suoi abitanti innescando una “perturbazione atmosferica” che porta la neve al mare.


La presenza di questi pupazzi di neve ci invita a riflettere sul valore dell’accoglienza verso forme estranee e diverse, ma anche sul passare del tempo e il senso dell’effimero: è un’opera che dura solo un’estate, come il turismo che inonda il borgo e poi evapora.
E proprio in estate, al mare, le persone si dividono sostanzialmente in due categorie: quelle che arrivano già abbronzatissime e quelle che ancora sono – e forse rimarranno – pallide.


Così ad affiancare gli Abbronzatissimi, il progetto mostra i Pallidissimi: cinque ritratti di pupazzi di neve diffusi tra i negozi di Cetara, quasi fossero dei bozzetti preparatori per le sculture. I loro visi sono stati dipinti con il succo dei limoni che costellano la Costiera Amalfitana e incorniciano il paese: Cetara è ricca di splendide coltivazioni di limoni. Naturalmente, una volta assorbito dalla carta il succo sparisce lasciando i volti così chiari da essere invisibili. Non rimane nulla del loro pallore se non le bocche di sasso, gli occhi di pigna e i loro nasi di carota.

 

Quale funzione ha l’arte nel mondo di oggi?

Non penso sia necessario che l’arte debba interessare tutti. 

 

Le opere

 

I pupazzi di neve sono come le nuvole, come le onde: tutti abbiamo in mente l’immagine di un pupazzo di neve, eppure ognuno è diverso, non si ripetono mai. La loro bellezza risiede nel loro essere unici e al tempo stesso universali.

  

Serena Vestrucci. Abbronzatissimi, 2023. Sale marino, resina e materiali naturali, quattro mesi, 170 x 70 x 50 cm | 130 x 60 x 50 cm | 150 x 90 x 80 cm. Courtesy l’artista e Galleria Renata Fabbri, Milano. Foto: Danilo Donzelli. Vista dell’installazione presso Piazza Grotta, Cetara, 2023.

 

Teste di cavolo sono sculture in bronzo ricavate dal calco in scala 1:1 di una famiglia di cavoli sulla cui superficie si scorgono sembianze umane. I personaggi presentano un catalogo immaginario di piccoli ritratti anti–monumentali rivolto a restituire dignità e valore ad un comune ortaggio. L'ovvietà del quotidiano incontra la complessità dell'esistenza umana in uno spaesamento allusivo e tipicamente scherzoso.

 

 

Serena Vestrucci. Testa di cavolo, 2022. Bronzo, sei settimane, 18 x 16 x 16 cm. Courtesy l’artista e Galleria Renata Fabbri, Milano. Foto: Alberto Fanelli.

 

Questo progetto vuole riportare l’arte a un’umana proporzione: non è sicuramente un intervento incisivo sul paesaggio, non è un gesto spettacolare; è un segno silenzioso di cui si accorge chi avvicina le sue labbra per bere.

 

Serena Vestrucci. Vedovelle e Draghi Verdi, 2015 – 2017. Bronzo, due anni. Opera permanente costituita da dieci sculture in bronzo per il parco d'arte contemporanea ArtLine Milano. Per la realizzazione del progetto si ringraziano Comune di Milano, CityLife Spa, MM Metropolitana Milanese Spa. Courtesy l’artista. Foto: Alberto Fanelli.

 

L’opera è realizzata tracciando i miei battiti di ciglia sulla superficie del foglio. Ho sempre pensato alle ciglia come pennelli che ognuno ha costantemente a disposizione e che, nel loro incessante movimento, lasciano segni incontrollati che graffiano l’aria. Il loro battito, istantaneo e inafferrabile, rimanda alla durata rapida e transitoria che intercorre tra uno sguardo e l’altro, allo stesso modo in cui è la nostra presenza: momentanea e fuggevole.

Serena Vestrucci. Batter d’occhio, 2021. Battiti di ciglia su tela, tempera, una settimana, 100 x 100 cm. Courtesy l’artista e Galleria Renata Fabbri, Milano. Foto: Alberto Fanelli.

 
Nel ciclo di lavori intitolati Trucco riduco l'ombretto in polvere e lo manipolo direttamente con le dita: quando “trucco” la tela non faccio altro che agire come chiunque usa gli ombretti sulle palpebre, semplicemente ne sposto il campo d'azione.

  

Serena Vestrucci. Trucco, 2020. Ombretti su tela, dieci giorni, 255 x 200 cm. Courtesy l’artista e Galleria Renata Fabbri, Milano.

 

Trascorro il tempo a guardare una serie di ritratti anonimi di cui non si conosce l’identità né dei fotografi né dei soggetti, e cerco un meccanismo per ridare loro vita. L’azione consiste nel coprirne i volti con la stoffa di indumenti in disuso, lasciando scoperti soltanto gli occhi. L'opera è un lavoro a sei mani tra me e qualcuno che non conosco.

  

Serena Vestrucci. Notte in bianco, 2022. Fotografie anonime, lana, due mesi, 113 x 153 x 5 cm. Dettaglio. Courtesy l’artista e Galleria Renata Fabbri, Milano. Foto: Alberto Fanelli.

 

Questo lavoro prende forma dal tentativo di trasformare una cosa in un'altra attraverso un minimo passaggio, una minima operazione. In questo caso, il semplice ed elementare gesto di tagliare una bandiera, scomponendola, può creare una volta celeste. Un’operazione potenzialmente infinita, un disegno che si muove per spostamenti.

  

Serena Vestrucci. Strappo alla regola, 2013. Tela di bandiere europee, tre mesi, 485 x 485 cm. Courtesy l’artista. Foto: Antonino Milotta. Vista dell’installazione presso la mostra collettiva "Io sono confine / I am border", a cura di Pierre Dupont, Anna Daneri e Antonino Milotta, Palazzo Grillo, Genova, 2023.

 

Ho usato parte di questi fogli per creare dei collage che nessuno vedrà mai. I restanti fogli che non ho usato vengono esposti e messi così a disposizione di terzi per altri possibili futuri collage. Chi venisse in possesso di questo lavoro può quindi variarne la composizione e modificarne la forma.

Serena Vestrucci. Ti lascio metà fogli da collage, 2010 – 2012. Album da collage, due anni, 235 x 210 cm. Courtesy l’artista.

   

Ho appallottolato un foglio di carta e ne ho colorata l'intera superficie con i pennarelli. Ho poi aperto il foglio delicatamente, ri-estendendolo, dispiegandolo.
Guardo la tridimensionalità di una forma e penso a cosa succederebbe se si riducesse a due dimensioni. Un meccanismo per passare dalla scultura alla pittura.

 

Serena Vestrucci. La sfera quando diventa piatta, 2011. Foglio di carta tagliato a mano, pennarelli, 21 x 30 cm circa, 20 minuti circa. Dettaglio. Courtesy l’artista. Foto: Peter Cox.

  

Questa è la mia prima opera, nata dall'incapacità di gestire il dolce far niente, quasi non sapessi conviverci. Nel 2010 durante il mio tempo libero spesso impilavo le matite, come modo per ammazzare il tempo, come pratica per tenermi occupata nei momenti in cui non si ha nulla da fare.

   

Serena Vestrucci. Quel genere di cose che fai quando non lavori, 2010. Matite colorate, 49 elementi, tempo libero. Courtesy l’artista.

 

 

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