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Quella 500 “orgogliosamente prodotta a Torino” e il patriottismo da cartellone

La 500 che torna a Mirafiori fa notizia, ma il patriottismo da cartellone non cambia la realtà: l’Italia dell’industria è un mosaico mondiale che sarebbe ora di raccontare senza ipocrisie

C’è qualcosa di tenero e di irritante, insieme, in quella pagina pubblicitaria: sfondo notturno, la collina, la Gran Madre, due 500 lucide e sopra la scritta: “Nuova 500 ibrida, orgogliosamente prodotta a Torino”. Tenero, perché l’idea di una piccola auto italiana che torna a casa, a Mirafiori, parla a un pezzo di memoria collettiva. Irritante, perché se devi specificare che è prodotta a Torino vuol dire che, nel frattempo, abbiamo metabolizzato che molta altra roba “nostra” non lo è più. E il messaggio implicito diventa: questa sì, le altre no. E’ un giochino retorico che conosciamo: il patriottismo selettivo. Funziona così: si prende un’operazione industriale – in questo caso il rientro di un modello in uno stabilimento storico – e la si trasforma in certificato di italianità assoluta. Come se bastasse la riga dell’assemblaggio finale per raccontare dove nasce davvero un prodotto. In realtà, anche la 500 “torinese” è figlia di catene di fornitura che passano per mezza Europa, per l’Asia, per il Nordafrica. Telaio qui, cablaggi là, componenti elettronici altrove. E’ normale, è il mondo. Ma in pubblicità non suona bene.

E però il sottotesto è pesante: se oggi celebriamo la 500 “orgogliosamente prodotta a Torino”, stiamo anche ammettendo che per anni abbiamo venduto come italiane auto prodotte altrove, in Polonia, in Serbia, in Turchia. Idem per altri settori: la “cucina italiana” con il pomodoro cinese, la “moda italiana” cucita in mezzo mondo, l’elettrodomestico col tricolore in spot e i capannoni in Europa dell’est. Tutto legittimo. Ma allora diciamolo: non c’è nulla di scandaloso nell’essere globalizzati. Lo scandalo è far finta di non esserlo. La cosa paradossale è che proprio l’industria dell’auto italiana, che vive di piattaforme condivise, di alleanze, di economie di scala europee, oggi si ritrova a strizzare l’occhio al sovranismo da cartellone. “Prodotta a Torino” suona come un lasciapassare morale in un clima pubblico in cui delocalizzare è peccato, importare è sospetto. Come se la macchina costruita con pezzi polacchi, tedeschi, messicani fosse meno degna di rispetto. Ma il cliente che si compra una 500 non si porta a casa un vessillo geopolitico: si porta un mezzo che deve funzionare, consumare poco, valere i soldi spesi.

Questo non significa che la scritta sia tutta propaganda vuota. Il fatto che a Mirafiori si riprenda a costruire una piccola auto di grande diffusione è una notizia vera: occupazione, indotto, know-how che non si spegne.   E’ giusto che Torino, città che ha pagato prezzi altissimi alla transizione dell’auto, rivendichi un pezzo di futuro. Ma sarebbe ancora più sano se questo orgoglio non si accompagnasse alla tentazione di raccontare la globalizzazione come una parentesi sporca da espiare con un po’ di produzione “di ritorno”.

La verità è che il Made in Italy del 2025 è un romanzo corale: l’auto nasce a Mirafiori ma parla inglese in software, tedesco in componentistica, cinese nei materiali, francese nei capitali. Possiamo far finta di niente e aggrapparci alla foto in notturna con la collina sullo sfondo, oppure possiamo usare quella stessa foto per dire: vedete? Il modo in cui Torino resta una città dell’auto passa proprio da qui, dalla capacità di stare dentro una filiera globale senza vergognarsene. Sarebbe bello, una volta tanto, una pubblicità che lo ammette a voce alta: “La nuova 500 è assemblata a Torino, con pezzi che arrivano dal mondo. Ed è una buona notizia, perché significa che l’Italia è ancora connessa al mondo.” Sarebbe meno patriottico, forse. Ma molto più onesto. E alla lunga più utile sia a chi compra l’auto sia a chi, in quella fabbrica torinese, ci lavora davvero.