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Foglio AI

L'Italia a mezz'altezza. La nuova geografia politica dopo il voto in Campania, Puglia e Veneto

Il centrosinistra governa dove il paese non è né troppo a nord né troppo a sud. Il centrodestra domina le periferie. Le regionali dividono il paese in tre

Guardata così, la cartina delle regionali è meno un test elettorale e più una Tac del Paese. La diagnosi è brutale: l’Italia è un corpo in cui il centro – geografico e sociale – tende al centrosinistra, mentre le estremità sono saldamente nelle mani del centrodestra. Dov’è il centrosinistra? Sta nelle regioni che combinano città medie forti, ceto pubblico esteso, università, qualche industria che esporta e un welfare che, tutto sommato, regge: Emilia-Romagna, Toscana, Umbria. A queste si sono aggiunte Campania e Puglia, più la Sardegna: un Sud che non è più solo terra di assistenza ma laboratorio di porti, turismo, filiere agroalimentari, servizi.  

 

Dov’è il centrodestra? Sta attorno a questa cintura. Nel Nord produttivo – Lombardia, Veneto, Piemonte, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Liguria – dove si concentrano le imprese, le partite Iva, l’ossessione per tasse e burocrazia. Qui l’idea che “Roma” e “Bruxelles” siano un freno è più forte di qualsiasi promessa di redistribuzione progressista. E sta nel Sud più fragile, da Calabria a Basilicata, dove la sensazione di essere periferia economica e politica continua a tradursi in un voto che chiede protezione prima che riforme. La mappa racconta  un paradosso: il blocco urbano, istruito, integrato nel mondo – quello che teoricamente dovrebbe essere avanguardia del cambiamento – vota in larga parte centrosinistra. Ma la somma dei territori che temono di perdere qualcosa, o che non hanno ancora nulla da perdere, continua a regalare al centrodestra un vantaggio strutturale. Non è solo una frattura Nord-Sud. E’ una frattura tra centro e margini del paese. Chi deve preoccuparsi? Il centrosinistra, ovviamente. Perché l’Italia che fa pil – la dorsale padana e il Lazio – resta tendenzialmente ostile o comunque tiepida. E perché la sua presenza nel Sud “nuovo” è spesso mediata da figure non proprio schleiniane e da alleanze che rafforzano più il M5s che il Pd. Governa regioni importanti, ma non controlla né la geografia del potere economico né il racconto del paese. Ma dovrebbe preoccuparsi anche il centrodestra. Perché la cintura rosso-rosa coincide sempre di più con l’Italia che sperimenta, che investe sulla sanità territoriale, sui treni regionali, sulla formazione, sulle politiche industriali non urlate.

 

Se il governo nazionale delude, l’opposizione non riparte dalle rovine: riparte da un corridoio di regioni relativamente funzionanti, dove amministratori e sindaci possono mostrare che un’altra destra-sinistra è possibile, più amministrativa che ideologica. L’allarme vero, però, non è solo politico: è il flop dell’affluenza. Una cartina così compatta, così prevedibile, convince molti elettori che tanto non cambierà nulla. Il risultato è un’Italia che vota poco e cambia ancora meno.  Se questa è la foto dell’Italia politica, la domanda non è solo chi vincerà le prossime politiche. E’ chi avrà il coraggio di ridisegnare la cartina: portare il centrosinistra nel Nord che produce, costringere il centrodestra a uscire dalla comfort zone della protesta territoriale, e convincere chi oggi se ne sta a casa che la geografia non è un destino. Finché questo non accade, quella mappa continuerà a dirci la stessa cosa: l’Italia è divisa tra chi amministra il proprio fazzoletto di colore e chi ha smesso di credere che valga la pena provare a cambiarlo.