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Tutto quello che ho imparato da “L'inferno è pieno di buone intenzioni” di Porro

Quando il “bene” diventa comandamento e la protezione diventa gabbia: così le buone intenzioni rischiano di trasformarsi in controllo mascherato

C’è un filo rosso che unisce la riflessione di Nicola Porro nel suo "L'inferno è pieno di buone intenzioni" e il modo in cui oggi discutiamo di intelligenza artificiale: l’idea che la bontà delle intenzioni non basti, anzi possa produrre mostri. E’ il cuore del libro, che si apre con Oscar Wilde (“l’inferno è lastricato di buone intenzioni”) e con un esperimento logico: spesso le conclusioni peggiori nascono da ragioni apparentemente nobili. E’ il trionfo della buona coscienza che diventa burocrazia morale, e che Porro smonta con ironia e rigore. Il primo inferno che descrive è quello dell’interventismo collettivo: la filantropia trasformata in assistenzialismo, la tolleranza in regolamento, la morale privata in norma pubblica. Ogni gesto individuale – scrive – quando diventa dovere sociale genera distorsioni. E’ una lezione che vale anche per l’AI: quando deleghiamo alle macchine (o allo stato) il compito di essere “buoni per noi”, smettiamo di pensare, di giudicare, di sbagliare. La vera libertà richiede rischio, non sorveglianza benevola. Il capitolo più feroce è quello sulla scuola, “anatomia del fallimento educativo italiano”. Porro parla di un’educazione che addestra invece di educare, che riempie vasi invece di accendere fuochi. “Gli studenti non sono esploratori, ma sudditi di un cappotto termico educativo standardizzato”. E’ un’immagine perfetta per descrivere un sistema che teme l’errore e sterilizza il pensiero critico. Da qui la generazione che confonde la ribellione con l’indignazione online. Nessuno insegna più che “l’errore è una miniera”: lo si cancella, come un post sbagliato. Eppure la parte più illuminante è quella neurologica: Porro cita la neuroplasticità per spiegare che senza sfida non c’è sviluppo cognitivo.  La scuola del “tutti bravi, tutti promossi” produce atrofia mentale, non inclusione. E’ la fotografia di una generazione educata alla protezione, non alla libertà. E di una cultura che confonde la tutela con l’annullamento del rischio. Il “buonismo scolastico”, per Porro, non è gentilezza ma crudeltà mascherata: congela l’ascensore sociale. Gli stessi che predicano inclusione – scrive – mandano i figli nei licei severi. E il paradosso è completo: i figli dei poveri vengono intrattenuti, quelli dei ricchi educati. Anche qui l’analogia con l’intelligenza artificiale è evidente: le élite imparano a usarla, i più fragili ne subiscono gli effetti. E chi osa dubitare viene zittito con la nuova etichetta del “negazionista”. Il libro andrebbe letto nelle scuole non perché sia un pamphlet politico, ma perché difende il pensiero critico come unica forma di cittadinanza. Insegna che non ogni disagio è discriminazione, non ogni differenza è ingiustizia, non ogni critica è odio. E che il coraggio dell’imperfezione è più educativo della perfezione algoritmica. “L’ironia – scrive Porro – è l’antidoto più potente contro ogni fanatismo morale”.  Portare “L’Inferno è pieno di buone intenzioni” nelle scuole significherebbe non educare al cinismo, ma all’autonomia del pensiero: il contrario del conformismo che produce mostri con le migliori intenzioni.