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le opinioni
Le imprese e la manovra del rigore. Tutto quello che piace poco al sistema produttivo
Non solo Confindustria: anche i settori industriali, farmaceutici e dei servizi segnalano una legge di bilancio troppo prudente, troppo breve e troppo fiscale. Il governo Meloni ha scelto la stabilità dei conti. Ma il mondo delle imprese chiede di tornare a parlare di crescita.
Nel linguaggio delle imprese, il termine che ricorre più spesso a proposito della manovra 2026 è “prudente”. È la parola che Maurizio Tarquini, direttore generale di Confindustria, usa come un complimento e insieme come una critica. Prudente perché garantisce la stabilità dei conti, prudente perché non rischia, prudente perché non osa. “È una manovra a saldo zero – ha detto Tarquini in audizione parlamentare – con un impatto nullo sulla crescita del Pil”. Un giudizio che, tradotto dal linguaggio diplomatico di Viale dell’Astronomia, significa: non si intravedono stimoli nuovi per la competitività del sistema industriale.
Confindustria riconosce meriti importanti al governo Meloni: la riduzione dello spread, la discesa dei tassi, la stabilità politica che rafforza l’affidabilità dell’Italia. Ma la sua diagnosi è netta: dopo la ripresa post-pandemica, il Paese è tornato a una crescita “da zerovirgola” e la legge di bilancio, con 21 miliardi di spesa coperta quasi integralmente da entrate, non cambia il quadro. L’Italia – dicono gli industriali – avrebbe bisogno di un “piano straordinario per la crescita”, fondato su investimenti, attrattività e riduzione strutturale dei costi energetici.
È proprio sull’energia che si concentra una delle critiche più dure: nei primi dieci mesi del 2025 il prezzo medio dell’elettricità è stato di 116 euro per megawattora, contro gli 87 della Germania, i 65 della Spagna e i 61 della Francia. “Una differenza che erode i margini, riduce gli investimenti e spinge alla delocalizzazione”. Per Confindustria, servono contratti a lungo termine, un disaccoppiamento dei prezzi del gas e dell’elettricità e la riduzione degli oneri di sistema, che oggi incidono per il 40 per cento sul costo delle bollette.
Altra obiezione forte riguarda la “stretta fiscale”. L’aumento della tassazione sui dividendi infragruppo e il blocco dell’utilizzo dei crediti d’imposta per compensare contributi e premi Inail vengono considerati “misure dirompenti” che “minano la certezza del diritto” e penalizzano la patrimonializzazione delle imprese. Stesso giudizio sull’orizzonte troppo corto dell’iperammortamento 4.0: misura utile ma valida solo per un anno. “Per programmare servono strumenti triennali”, ripetono gli imprenditori.
Le imprese del Sud apprezzano la proroga del credito d’imposta Zes fino al 2028, ma segnalano dotazioni finanziarie “timide” e chiedono di rendere cumulabili gli incentivi con le risorse europee. I contratti di sviluppo, strumento centrale per i grandi progetti industriali, vengono definiti “sottodimensionati”: appena 550 milioni nel triennio 2027-2029, meno che negli anni precedenti. E il Fondo di garanzia per le Pmi – pilastro dell’accesso al credito – resta privo di risorse aggiuntive.
Il settore farmaceutico denuncia una contraddizione: da un lato la cancellazione del prelievo dell’1,83 per cento sui farmaci venduti al Servizio sanitario, dall’altro l’assenza di una soluzione definitiva per il payback, che “continua a scoraggiare investimenti e innovazione”. L’industria digitale, dal canto suo, lamenta la mancanza di un piano per la ricerca e la formazione tecnologica. “La manovra allontana il mondo della ricerca da quello delle imprese”, osserva Tarquini, chiedendo la stabilizzazione del credito R&S e un aggiornamento delle tecnologie ammissibili ai nuovi incentivi.
Dietro la diversità delle lamentele c’è un filo comune: la sensazione che la politica economica italiana sia diventata difensiva. L’idea che l’Italia debba “piacere ai mercati” ha convinto le agenzie di rating, ma non il mondo produttivo. Il governo viene promosso per disciplina e affidabilità, ma rimandato a settembre sulla crescita. “Senza crescita – conclude Confindustria – non potremo più garantire sanità, istruzione e previdenza. Serve più coraggio industriale”.
Una linea che accomuna gran parte delle categorie economiche: la prudenza di bilancio è considerata un punto d’onore, ma anche un limite. Se la prima Meloni ha ridato credibilità ai conti, la seconda – dicono le imprese – dovrà ridare coraggio all’economia.