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Foglio AI

Lo stadio Bernabéu, simbolo di cosa succede quando la politica serve lo sport invece di paralizzarlo

Dalla sfida epocale tra il nuovo Bernabéu, tempio dell’innovazione, a tutti gli ostacoli per costruire stadi moderni in Italia: un racconto di visioni opposte e opportunità mancate

Domenica, durante il clásico tra Real Madrid e Barcellona, centinaia di milioni di persone nel mondo hanno visto non solo una partita, ma un’idea di futuro. Il nuovo Santiago Bernabéu, rinato dopo quattro anni di lavori, non è più solo uno stadio: è un organismo vivente, un colosso tecnologico che respira, si muove, si trasforma. Il suo campo è meccanico, diviso in sei zolle che scorrono su binari sotterranei per essere conservate in un hangar con luce artificiale, irrigazione e controllo climatico. Il tetto retrattile si chiude in 15 minuti, le facciate in acciaio e led cambiano colore a seconda dell’evento, e il sistema audio-visivo è progettato per concerti e spettacoli quanto per il calcio. Il Bernabéu oggi vale quasi due miliardi, ma non è costato ai contribuenti un euro. E’ stato finanziato dal Real Madrid con un modello di project financing e un prestito a lungo termine garantito dagli introiti futuri. Ogni metro quadrato è pensato per produrre valore: il museo, i ristoranti panoramici, le sale congressi, il campo estraibile che consente di ospitare 200 eventi l’anno. E’ un esempio di come l’innovazione urbana possa nascere anche dal calcio.

Ora proviamo a tornare in Italia. Da Roma a Milano, da Firenze a Cagliari, il dibattito sugli stadi si è incagliato sempre nello stesso vicolo cieco: non si discute più come farli, ma se farli. Ogni progetto – dall’Olimpico rinnovato all’Artemio Franchi, dal nuovo Meazza al Dall’Ara – si arena tra ricorsi, soprintendenze, consigli comunali e pareri ambientali. In un paese in cui anche rifare un marciapiede diventa una disputa ideologica, costruire uno stadio moderno equivale a una guerra di religione. La differenza con la Spagna è culturale e amministrativa. A Madrid o a Bilbao nessuno pensa che lo stadio sia un monumento da conservare in eterno: è un’infrastruttura viva, che cambia con la città. In Italia, invece, lo stadio è trattato come una reliquia o, peggio, come un rischio elettorale. I sindaci temono la protesta dei residenti, le società non vogliono affrontare anni di iter burocratico, lo stato non si fida dei privati e i privati non si fidano dello stato. Così si resta fermi, tra rendering mozzafiato e cantieri mai aperti. Nel frattempo, il Real Madrid incassa 300 milioni l’anno dal suo stadio e continua a competere con i fondi sovrani. Le squadre italiane, invece, giocano in impianti vecchi, con seggiolini rotti e bagni anni Novanta, pagando affitti ai Comuni e rinunciando a una delle principali fonti di ricavi del calcio moderno. La follia è che il problema tecnico – i soldi, le tecnologie, i modelli – oggi sarebbe risolvibile: quello che manca è la volontà politica di decidere. Il Bernabéu dimostra che lo stadio può essere un motore economico, un laboratorio di innovazione e perfino un pezzo di orgoglio urbano. Ma in Italia ogni stadio diventa un referendum su tutto: sul cemento, sulla storia, sul capitale, sulla paura del cambiamento. E’ il paradosso di un paese che ha inventato l’architettura ma non riesce a costruire più nulla. Domenica sera, mentre il tetto del Bernabéu si chiudeva come una lente e il prato spariva sotto terra, si aveva la sensazione che il calcio non fosse più solo un gioco, ma un test di civiltà amministrativa. Madrid lo ha superato. Noi, come al solito, stiamo ancora discutendo se la domanda giusta sia “come” o “se”. E così restiamo fuori dal futuro, con i nostri stadi eternamente in attesa di nascere.