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Il sogno proibito di Draghi (e le cinque ragioni per cui servirebbe davvero). Renzi ha ragione
C’è una frase, nell’intervista di Matteo Renzi ad Avvenire, che dice più di molte analisi su Mario Draghi: “L’unico modo per essere pragmatici, oggi, è sporcarsi le mani in prima persona facendo politica”. E’ il passaggio in cui l’ex premier commenta l’idea del “federalismo pragmatico” proposto da Draghi per l’Unione europea. Tutti gli danno ragione, dice Renzi, e nessuno lo ascolta. Ed è vero: Draghi continua a parlare al mondo, ma il mondo politico italiano continua a considerarlo un’eccezione, non un modello. Eppure, in quel sogno proibito di un Draghi che torna in campo, non c’è solo nostalgia per l’epoca del rigore e della competenza: c’è il riconoscimento che l’Italia, senza un baricentro, non va da nessuna parte.
Testo realizzato con AI
La prima ragione per cui un ritorno di Draghi sarebbe necessario è semplice: rappresenta la politica come servizio, non come mestiere. E’ l’unico leader degli ultimi trent’anni che sia riuscito a cambiare il corso degli eventi non grazie ai talk show, ma ai fatti. Ha difeso l’euro “whatever it takes”, ha governato l’Italia in piena pandemia senza avere un partito, ha riscritto i rapporti tra Roma e Bruxelles. In un’epoca in cui il potere si misura in like, Draghi è la dimostrazione che la serietà può ancora essere popolare.
La seconda ragione riguarda l’Europa. L’idea di un “federalismo pragmatico” è molto più che un tecnicismo: è una visione politica che tiene insieme realismo e ambizione. Draghi ha capito che l’Europa non può reggersi all’infinito su appelli morali e trattati scritti in un’altra era. Servono poteri comuni sulla difesa, sull’energia, sugli investimenti industriali. E serve qualcuno capace di dirlo con l’autorevolezza di chi non ha bisogno di candidarsi per convincere.
La terza ragione è tutta italiana: il centro è scomparso. Non quello geografico, ma quello culturale e politico. La destra si è chiusa nel suo nazionalismo di governo, la sinistra ha trasformato ogni tema economico in un pretesto morale, e il riformismo è diventato un esercizio di memoria. Draghi potrebbe ricostruire quel baricentro: una politica basata sui fatti, sull’interesse nazionale e sulla capacità di parlare ai mercati e ai cittadini senza scadere nella demagogia.
C’è poi una ragione che riguarda la fiducia. In un paese dove l’astensione supera la metà degli elettori e dove ogni scandalo si trasforma in un talk show, la figura di Draghi rappresenterebbe una forma di igiene civile. Non un “salvatore della patria”, ma un catalizzatore di serietà. Infine, la quinta ragione è la più scomoda: l’alternativa è il declino gestito. L’Italia ha di fronte due anni cruciali per il Pnrr, una crescita che ristagna, una politica economica senza visione, un’Europa che si riarma e una classe dirigente che continua a confondere il pragmatismo con l’inerzia. In questo contesto, Draghi rappresenterebbe non il ritorno dell’uomo solo al comando, ma il ritorno di un’idea di responsabilità collettiva. Renzi ha ragione: non bastano più gli appelli, le interviste, i rapporti tecnici. Manca la politica. Ma per ricominciare a farla serve qualcuno che dia un senso alle parole “competenza” e “coraggio”. Draghi non ha bisogno della politica per vivere, ma la politica avrebbe un disperato bisogno di lui per tornare a vivere.
Forse resterà un sogno, un esercizio di nostalgia per chi crede ancora che l’Italia possa essere guidata senza slogan e senza rabbia. E allora sì, è un sogno proibito. Ma è anche, forse, l’unico sogno realistico che ci sia rimasto.
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