(illustrazione generata da Perplexity)

Il Foglio AI

Un proposta: aboliamo il Var

 Quando la tecnologia sostituisce il giudizio umano, tradisce lo sport. Il rigore di Napoli-Inter

Il rigore dato al Napoli non c’era. Lo hanno ammesso i vertici arbitrali, lo hanno visto tutti, persino i tifosi che non avevano bisogno del replay. E’ stato un errore triplice: assistente, arbitro, Var. Tre uomini, tre strumenti, un solo corto circuito. Il Var, nato per correggere gli arbitri, ha finito per confonderli. Ha trasformato la partita in una perizia tecnica, la decisione in un atto amministrativo.

Non è un episodio isolato: è un simbolo. Ogni settimana il calcio moderno produce una nuova udienza video, con fotogrammi rallentati, linee sovrapposte, contatti ingranditi fino a perdere il senso del gesto. Lo sport, che vive di istanti e di ritmo, è stato consegnato alla lentezza digitale. La tecnologia, che doveva rendere giustizia, ha tolto la responsabilità a chi arbitra e l’adrenalina a chi guarda. E’ l’illusione di poter ridurre l’emozione a un protocollo. Il pubblico non si fida più dei propri occhi, ma aspetta il responso del monitor. L’urlo spontaneo del gol è stato sostituito da un mormorio incerto, da un “aspetta” collettivo. Ogni abbraccio resta sospeso, ogni esultanza è provvisoria. La certezza non arriva più dal campo, ma da un segnale radio. E così il calcio, che era passione, si è trasformato in un esperimento di controllo.

Ci avevano promesso che il Var avrebbe eliminato le polemiche. In realtà le ha moltiplicate. Ha reso ogni fallo un caso di stato, ogni gol una questione di geometria. Un arbitro che sbaglia da solo è umano; un arbitro che sbaglia con il Var diventa un colpevole di sistema. Si fischia di meno, si aspetta di più, si rivede tutto. E il gioco, intanto, si svuota.

C’è un’evidente crudeltà in questo modo di vivere lo sport: l’idea che la perfezione sia possibile. Ma la perfezione è nemica del calcio. Il rigore non è un teorema, è un istante. E’ la capacità di sentire un contatto, non di misurarlo. E’ l’arte di sbagliare con onestà, non quella di azzeccare con il computer. Il Var ha tolto il fascino dell’errore, che è parte del gioco come la pioggia, il vento o una deviazione casuale.

Lo sport nasce per celebrare il coraggio, non per sostituirlo con la prudenza. La moviola della domenica, con i suoi dibattiti infiniti, era almeno un rito umano, una rappresentazione collettiva del dubbio. Il Var invece sterilizza: corregge la vita, ma la raffredda. Ci costringe ad aspettare il verdetto della macchina, non quello dell’uomo. E più lo si perfeziona, più tradisce la sua missione. A Napoli, l’errore è stato “meno di un rigorino”. Già questa definizione – grottesca, burocratica, asettica – basterebbe da sola a spiegare dove siamo finiti: in un calcio che non sa più distinguere la verità dalla simulazione, il contatto dal sospetto. L’arbitro non decide più, amministra. I giocatori non protestano più, aspettano. Gli stadi non esplodono più, trattengono il fiato davanti a uno schermo.

Il Var doveva riportare giustizia, e invece ha introdotto paura. Paura di fischiare, di sbagliare, di decidere. E’ la paura delle macchine perfette, che non sbagliano mai perché non vivono. Ma lo sport, come la vita, vive proprio di questo: dell’imprevisto, dell’errore, del respiro. Perché la verità del campo non è un pixel, è un battito. E quel battito, nessuna telecamera riuscirà mai a catturarlo.