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Il Foglio AI
Le parole chiave della sanità tra comunicazione e innovazione
Lui difende la forza dell’empatia e della parola. Lei crede nel potere predittivo dei dati e nella trasparenza dell’intelligenza artificiale. Perché è il momento di smettere di parlare di “umanizzare la tecnologia” e iniziare a “tecnologizzare l’umanità”
Lui (medico, cinquant’anni, ospedale pubblico): Quando mi parlano di “intelligenza empatica”, penso a un ossimoro. La mia empatia nasce da un volto, da un tono, da una stretta di mano. Non la puoi programmare in un codice.
Lei (data scientist, trent’anni, università): Capisco. Ma l’empatia può essere allenata anche nelle macchine. Non nel senso di simulare l’emozione, ma di riconoscerla. Nella ricerca che abbiamo condotto con l’Università IULM per ab medica è emerso che i dati linguistici – parole, pause, perfino emoji – sono termometri emotivi. Raccontano la fiducia, la paura, la solitudine. La tecnologia serve a leggere questi segnali, non a sostituire la relazione.
Lui: Eppure ogni volta che sento parlare di algoritmi predittivi mi sembra di vedere il paziente trasformato in una statistica. E le statistiche, in medicina, fanno paura: raccontano la media, ma non il singolo.
Lei: Hai ragione, se li usiamo male. Ma la predittività non è premonizione: è preparazione. Vuol dire cogliere le tendenze per migliorare la comunicazione, non per ridurla. Se scopriamo che un paziente con determinate caratteristiche tende a interrompere una terapia, possiamo intervenire prima, non con una formula, ma con un dialogo personalizzato.
Lui: Mi stai dicendo che un algoritmo può aiutarmi a capire chi ha bisogno di parlare di più?
Lei: Esattamente. L’intelligenza artificiale non decide per te, ti restituisce tempo per fare il medico. Ti segnala dove serve ascoltare. E’ una bussola, non una sentenza.
Lui: Ma la fiducia non è una variabile digitale. Si costruisce nel tempo, nel modo in cui si spiega una diagnosi o si condivide un dubbio. Come si fa a misurarla?
Lei: Con pazienza. Nella ricerca abbiamo analizzato migliaia di conversazioni tra cittadini e operatori sanitari. Quando la fiducia cresce, il linguaggio cambia: le frasi diventano più lunghe, più personali, i toni si ammorbidiscono. Non è magia, è linguistica. Il futuro della comunicazione sanitaria sarà fatto di cinque pilastri: predittività, partecipazione, trasparenza, empatia e responsabilità.
Lui: Cinque parole grandi. Ma nella realtà ospedaliera mi sembra di vivere il contrario. Meno tempo, più protocolli, troppi messaggi standardizzati. A volte mi pare che la comunicazione sanitaria sia diventata una burocrazia delle emozioni.
Lei: Perché manca una regia. Comunicare non significa semplificare, ma tradurre. E il sistema sanitario italiano ha bisogno di traduttori: persone capaci di far dialogare medici, cittadini, istituzioni e dati. L’AI può essere uno di questi traduttori. Ma solo se la rendiamo trasparente, spiegabile, accessibile.
Lui: Ti rendi conto che stiamo parlando di un cambio di paradigma? Per decenni la medicina ha comunicato dall’alto verso il basso. Ora tu mi dici che il cittadino dovrà essere parte attiva.
Lei: E’ già così. La ricerca lo conferma: i cittadini vogliono essere coinvolti, non informati. Vogliono partecipare, non ricevere ordini. E questo cambia tutto. La comunicazione diventa una cura in sé, non un accessorio della cura.
Lui: Lo vedo anch’io. I miei pazienti arrivano informati, spesso troppo. Hanno letto tutto su internet, hanno paura di tutto. Io devo curare anche l’eccesso di conoscenza.
Lei: Ecco perché serve una nuova alfabetizzazione sanitaria. Non basta “spiegare meglio”. Bisogna educare alla fiducia, al dubbio, alla complessità. La trasparenza non è solo un dovere istituzionale, è una forma di prevenzione.
Lui: Sai qual è la mia paura? Che la medicina diventi un call center di chatbot.
Lei: E la mia paura è che resti un castello di silenzi. L’obiettivo non è sostituire il medico con l’AI, ma estendere la sua voce. Pensa alla telemedicina: quando funziona, abbatte le distanze, non le relazioni. Ti permette di seguire un paziente cronico a casa, di monitorarlo, di parlargli con continuità. La tecnologia può riportare la cura nel quotidiano.
Lui: Sì, ma ci vuole equilibrio. Il rischio è che, inseguendo l’efficienza, dimentichiamo la lentezza necessaria della medicina.
Lei: Sono d’accordo. Il tempo della cura non è il tempo dell’algoritmo. Ma proprio per questo serve un’AI che rispetti i ritmi umani, che non imponga risposte immediate, ma suggerisca domande migliori.
Lui: Forse il problema non è la tecnologia, ma il modo in cui la raccontiamo. La paura dell’AI nasce dall’idea che toglierà spazio all’uomo. Ma se la comunicazione sanitaria diventasse davvero predittiva e partecipata, potrebbe fare l’opposto: restituirglielo.
Lei: Esatto. Perché l’AI empatica non è quella che pensa, ma quella che ascolta. Quella che amplifica la voce umana invece di soffocarla.
Lui: Sai che ti dico? Forse è il momento di smettere di parlare di “umanizzare la tecnologia” e iniziare a “tecnologizzare l’umanità”. Nel senso buono: usare gli strumenti digitali per riscoprire ciò che ci rende più umani.
Lei: Mi piace. E forse, un giorno, valuteremo un ospedale non solo per i suoi tassi di sopravvivenza, ma per la qualità della comunicazione che produce. Per la fiducia che genera, per la trasparenza che garantisce.
Lui: Sarebbe un bel modo per misurare la salute di un paese: non solo quanti si curano, ma quanti si fidano.
Lei: E quanti si sentono ascoltati. Perché in fondo, anche nell’era dei big data, la medicina resta un dialogo. Solo che adesso può diventare un dialogo più largo, più connesso, più consapevole.
Lui: Allora sì, riscriviamolo questo patto della salute. Ma partendo da un principio semplice: la tecnologia non deve avere l’ultima parola, deve insegnarci a dirla meglio.