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Il Big Mac del welfare

McDonald’s firma un contratto integrativo con i sindacati che sembra scritto più per un seminario di relazioni industriali che per una catena di fast food. Dentro c’è un segnale interessante: il capitalismo della flessibilità che scopre la parola “cura”.

Nel Paese in cui ogni vertenza finisce a pugni tra ideologia e precariato, l’accordo integrativo tra McDonald’s e i sindacati maggiori – Cgil, Cisl e Uil – è una notizia da guardare senza ironia. Non solo perché riguarda tremilaseicento dipendenti e potrebbe diventare un modello per gli ottocento ristoranti in franchising, ma perché racconta come la ristorazione veloce, simbolo di lavoro a basso costo, stia provando a mettere radici nel terreno della stabilità sociale.

Il contratto non inventa il welfare aziendale, ma lo democratizza: congedi parentali retribuiti, banca ore solidale, permessi per studenti e caregiver, orari flessibili per le madri, misure anti-violenza di genere, e persino un bottone d’emergenza collegato con la polizia nei locali più esposti. Non è un manifesto progressista, è un adattamento intelligente: in un mercato in cui è difficile trovare personale, il benessere diventa strumento di competitività.

La vera novità, forse, è che l’accordo non parla di diritti contro il profitto, ma di profitto attraverso i diritti. È un segno dei tempi: dove la politica arranca a scrivere un nuovo patto sociale, a farlo sono le multinazionali che hanno capito che un dipendente trattato bene serve i clienti meglio. Anche questo, nel suo piccolo, è capitalismo all’italiana che evolve.