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L'Italia dei sassi. Una vittima innocente in un autobus di tifosi. Quanto è sottile la distanza tra la rabbia e il caso

Un vetro rotto, una vita spezzata, e nessun nemico da incolpare: è la violenza istintiva, quella che nasce dal vuoto e colpisce a caso, come un riflesso di un malessere collettivo

Un autobus di tifosi, una notte di ritorno da una partita, un sasso che rompe un vetro e una vita che finisce. Potrebbe essere la scena di un film sul disagio sociale o sull’Italia degli anni Settanta, e invece è cronaca di oggi. La storia è semplice e assurda: un gruppo di persone che si diverte, un gruppo di altre persone che lancia pietre. Non c’è un motivo, non c’è un messaggio politico, non c’è una fede da difendere. Solo la scarica elettrica dell’odio improvviso. In questi casi la reazione collettiva è sempre la stessa: si invoca lo stop ai campionati, si parla di emergenza sicurezza, di curve, di controlli. Ma nessuna misura amministrativa può rispondere a una cosa così primitiva. Perché un sasso lanciato di notte non è un fatto sportivo: è un gesto antropologico. E’ l’istinto di colpire qualcosa che si muove, qualcosa che passa, qualcosa che somiglia al proprio fastidio. C’è dentro una frustrazione più grande, che non ha mai trovato un linguaggio civile.

 

E’ la rabbia di chi si sente escluso da tutto e cerca una scena, anche minuscola, per esistere. Un sasso lanciato, oggi, è un modo di apparire per un secondo, di lasciare un segno nel buio. Non è odio, è desiderio di visibilità travestito da violenza. E più il paese si frammenta, più cresce la tentazione di farsi notare col gesto estremo, con il colpo improvviso. E’ un modo distorto di dire: “guardatemi, esisto anch’io”. Solo che non c’è nessuno a guardare, se non le telecamere di sicurezza e i titoli del mattino dopo. E’ come se in Italia ci fosse un piccolo serbatoio di rabbia sempre pronto a traboccare. Non esplode nelle rivoluzioni, ma nei parcheggi, negli stadi, nei social. Non ha un colore né un programma: ha la forma di un impulso. Si esprime a ondate brevi, violente, e poi sparisce. Il giorno dopo ci si sveglia, si legge che è morto un autista, e si dice che “non è possibile”. Ma è possibile eccome. E’ una logica che abbiamo imparato a riconoscere e a dimenticare nello stesso tempo.

L’Italia è un paese dove tutto diventa personale. Anche la viabilità, anche lo sport. Non si sopporta più la neutralità: bisogna schierarsi, odiare, distinguersi. Non ci si scalda più per un’idea, ma per un riflesso condizionato. Per questo il gesto di chi ha lanciato quel sasso non è così distante dal gesto di chi scrive un insulto anonimo in rete o si accanisce su uno sconosciuto in fila al casello. E’ la stessa grammatica dell’ira senza oggetto. L’autista morto, in fondo, non rappresenta nessuno: è la vittima perfetta di una violenza che non cerca nemmeno il colpevole. E’  morto perché si trovava nel punto in cui la rabbia degli altri ha incrociato la casualità. Ed è questo il vero dramma: la trasformazione della violenza in un fatto accidentale, quasi meccanico, come un temporale.

Ci si chiede sempre cosa si possa fare per fermare “gli episodi”. Ma non ci sono episodi, c’è un clima. Un’inquietudine diffusa, che va dal tifo ai social, dai bar alle redazioni, e che produce la stessa energia tossica: la voglia di colpire, di distinguersi, di farsi sentire. E’ la rabbia come linguaggio nazionale. L’Italia dei sassi è un paese che ha smarrito la misura, non la morale. E’  un paese dove il problema non è la violenza, ma la casualità della violenza. Dove non si uccide per un’idea, ma per distrazione. E questa, paradossalmente, è la cosa più spaventosa: che non ci sia più nemmeno bisogno di odiare per fare male. Basta solo essere annoiati, arrabbiati, e avere un sasso a portata di mano.

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