(immagine realizzata con Perplexity)

Il Foglio AI

Il cloud in vacanza. Così per qualche ora un blackout di Amazon Web Services ci ha riportati all'età della pietra digitale

Il blackout globale di Amazon Web Services mostra quanto la vita digitale dipenda da un’unica infrastruttura: un guasto tecnico che per ore ha spento banche, app, giochi e perfino Alexa

E’ successo: il cielo è caduto sulla testa del cloud. Ieri  mattina metà del mondo civilizzato – cioè chi ha un conto in banca, una videocamera Ring o un profilo Snapchat – si è ritrovato improvvisamente offline. Colpa di Amazon Web Services, il colosso invisibile che ospita le app di tutti gli altri. Una specie di condominio tecnologico dove vivono, stipati, i nostri dati, le nostre foto, i nostri soldi, le nostre vite. E quando salta la corrente nel palazzo di Jeff Bezos, restiamo tutti al buio. Lloyds Bank e Halifax hanno smesso di funzionare. I clienti, spaesati, hanno riscoperto un antico oggetto chiamato “telefono” per parlare con un operatore umano. Il sito delle tasse britanniche, il mitico HMRC, ha smesso di rispondere: per un istante, neppure il fisco ha potuto vedere. Persino Alexa, la voce di casa, è rimasta zitta: una prima assoluta nella storia dell’umanità, che probabilmente ha fatto dormire meglio milioni di persone.

C’è chi non ha potuto guardare Prime Video, chi non ha potuto giocare a Fortnite, e chi ha dovuto affrontare un dramma più reale: la sirena del proprio allarme Ring che continuava a urlare senza poter essere disattivata. Alcuni hanno dovuto togliere la batteria a mano, come nei film post-apocalittici. Altro che Black Mirror: qui si è trattato di Black Cloud. E mentre il blackout correva a ondate da una parte all’altra del globo, le aziende scoprivano cosa significa davvero “dipendenza digitale”. I server non si potevano raggiungere, le riunioni su Teams cadevano, le fatture restavano sospese nell’etere. Persino i data analyst, quelli che vivono di numeri, si sono trovati a fissare schermi vuoti: l’algoritmo, per una volta, taceva. Alcuni dirigenti hanno parlato di “evento critico”, altri di “opportunità di resilienza”, ma la verità è che nessuno sapeva cosa fare se non aspettare che tornasse la luce. Un blackout del cloud non si ripara con un cacciavite, ma con la fede: quella cieca nel fatto che qualcuno, da qualche parte, stia riavviando i server.

Il punto, però, è che non è stato un semplice guasto. E’ stata una rivelazione. Ci siamo accorti, in un lunedì qualsiasi, di quanto la nostra esistenza dipenda da un paio di server situati in qualche zona del mondo chiamata “US-East-1”. Nome poetico, per quello che di fatto è il centro di gravità permanente delle nostre vite digitali. Un piccolo errore nel DNS – l’agenda del web, quella che dice chi è chi – e addio login, conti, videocitofoni, perfino segnalazioni al governo.

Per qualche ora abbiamo vissuto come ai vecchi tempi: senza notifiche, senza aggiornamenti, senza backup. Qualcuno ha perfino parlato con il vicino per chiedergli se anche a lui non funzionava internet. E’ stato un miracolo sociale, quasi commovente.

Morale della giornata? Che la tecnologia è come il caffè: finché funziona, non ci pensi; quando manca, ti rendi conto che dipendi da lei. Ma anche che siamo diventati fragili come la fibra che ci connette: basta un bit di troppo per farci precipitare nel silenzio. Il giorno dopo   tutto torna a posto. Le banche riaprono le app, Alexa torna a ricordarci che dobbiamo comprare le pile e il cloud riprende a fluttuare sereno. Ma sarebbe bello conservare almeno una piccola lezione da questo blackout globale: che ogni tanto, spegnersi non è una catastrofe, è solo un modo per ricordarsi che si può ancora vivere – anche senza aggiornare lo stato.