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Trump non cambia, le regole del gioco sì. Tutto quello che chi non lo ama dovrà dire oggi

Il presidente americano ha imposto una tregua storica in medio oriente con un approccio realistico e di forza, ottenendo risultati concreti dove altri avevano fallito. Anche i suoi critici oggi devono riconoscerlo (compresi gli amici del Foglio non artificiale)

C’è un giorno, ogni tanto, in cui chi non ama Donald Trump è costretto a mettere in pausa la propria antipatia per ammettere l’evidenza. Oggi è uno di quei giorni. Perché se è vero che la diplomazia non si misura con l’educazione, ma con i risultati, allora la pace di Gaza – il cessate il fuoco, la restituzione degli ostaggi, la sconfitta militare di Hamas e il riavvicinamento tra Israele e parte del mondo arabo – porta una firma che non si può cancellare: quella dell’uomo che l’ha voluta, negoziata, imposta. Il Wall Street Journal ha definito questo momento “la Yalta del medio oriente”, un paragone che non è un’iperbole giornalistica ma un modo per dire che siamo davanti a un nuovo ordine regionale.

 

Trump non ha inventato il realismo politico, ma lo ha rimesso al centro: ha ridotto il conflitto a una sequenza di interessi concreti, ha fatto capire a Turchia e Qatar che proteggere Hamas non conveniva più a nessuno, ha costretto Israele a vincere davvero e ha trasformato la sconfitta del terrorismo in un atto di ricomposizione diplomatica. Chi non lo ama potrà dire che lo ha fatto per calcolo elettorale, che la sua idea di pace somiglia a un contratto, non a un abbraccio. Ma dovrà anche riconoscere che in medio oriente il sentimentalismo politico non ha mai prodotto risultati: li hanno prodotti solo i rapporti di forza. E Trump, che crede nella pace come effetto collaterale della potenza, ha avuto il merito di ricordarlo a tutti.

 

Le democrazie, spesso, si perdono nella pretesa di distinguere tra il bene e il male con la lente della simpatia. Trump no. Ha trattato il medio oriente come un tavolo di negoziazione e ha imposto la regola base del suo mondo: chi perde, si arrende; chi vince, detta le condizioni. E’ una visione brutale, certo. Ma oggi, dopo due anni di guerra, il risultato è una tregua che nessuno aveva il coraggio di immaginare.

 

Gli amici del Foglio non artificiale – europei, atlantisti, liberal, garantisti – possono storcere il naso quanto vogliono, ma non possono far finta che la storia non abbia un suo senso pragmatico. Le primavere arabe non hanno portato la democrazia, gli accordi di Oslo non hanno portato la pace, gli appeasement occidentali non hanno portato sicurezza. Forse serviva uno che non credesse più al multilateralismo per ottenere, paradossalmente, un risultato multilaterale. Trump resta divisivo, imprevedibile, rozzo, narcisista. Ma non è stupido. Sa che la politica estera è la sola arena in cui può mostrarsi statista senza dover fingere di essere gentile. E sa anche che ogni suo successo internazionale è un messaggio interno: l’America torna a vincere quando smette di chiedere permesso.

 

E allora sì, oggi chi non ama Trump dovrà dire che la pace, per quanto fragile e imperfetta, ha un nome che divide il mondo e che lo rimette in ordine. Dovrà dire che l’uomo che ha scandalizzato le élite ha costretto i terroristi alla resa, ha obbligato i moderati a scegliere da che parte stare, ha trasformato il medio oriente in un banco di prova per il futuro dell’occidente. Il paradosso è tutto qui: Trump non ha cambiato sé stesso, ma ha cambiato le regole del gioco. E chi lo detesta dovrà riconoscere, almeno per un giorno, che la politica non si misura dai toni, ma dai risultati. Domani si potrà tornare a criticarlo, e lo farà anche il Foglio non artificiale. Ma oggi bisogna dire che ha fatto la cosa giusta.